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tecnologia

Meta nel mirino dell’Antitrust: “Non può imporre la sua AI”

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L'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato contesta al colosso Big Tech di aver sfruttato la propria posizione dominante e di vincolare gli utenti, che trovano il servizio abbinato a Whatsapp senza averne fatto richiesta.

Attualità 31_07_2025
Dominique HOMMEL - imagoeconomica

A partire da marzo Meta ha deciso di integrare in modo automatico e predefinito il proprio assistente di Intelligenza Artificiale, Meta AI, all’interno dell’applicazione WhatsApp, sfruttando la sua posizione dominante nel mercato dei servizi di comunicazione via app. Tale operazione, secondo quanto rilevato dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) in cooperazione con la Commissione Europea, configurerebbe un potenziale abuso di posizione dominante in violazione dell’articolo 102 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea.

L’istruttoria avviata nelle scorse ore dall’Antitrust si concentra sul fatto che il servizio di AI sia stato abbinato a WhatsApp senza che gli utenti ne abbiano fatto esplicita richiesta, con una presenza prominente sulla schermata iniziale dell’app e un’integrazione diretta nella barra di ricerca. Una scelta che va ben oltre una semplice introduzione di nuove funzionalità e si configura come una modalità di imposizione silenziosa e strutturata, che preclude ogni possibilità reale di opt-out o disinstallazione del servizio.

Il rischio sottolineato dall’Autorità non è soltanto quello di danneggiare la concorrenza, schiacciando sul nascere eventuali player alternativi che agiscano in modo indipendente nel mercato emergente dei chatbot e degli assistenti AI, ma anche quello di vincolare gli utenti in un rapporto di dipendenza funzionale crescente.

Meta AI, infatti, è in grado di apprendere dalle interazioni con l’utente e di offrire risposte sempre più personalizzate e pertinenti, creando un legame digitale difficile da interrompere nel tempo. Questo approccio opaco mina alla radice i principi di trasparenza e libera scelta: se l’utente non ha chiesto il servizio, non può disattivarlo e non può evitarne la presenza costante, ci si trova di fronte a una forma di condizionamento sistemico che svilisce l’autonomia dell’individuo nell’uso delle tecnologie. Inoltre, il fatto che Meta possa sfruttare la sua base utenti attiva su WhatsApp per lanciare e rafforzare una nuova piattaforma AI rappresenta una scorciatoia anticoncorrenziale, che consente di penetrare un mercato senza passare da un confronto effettivo sui meriti, sulla qualità o sull’innovazione rispetto ai competitor.

Meta, dal canto suo, si difende sostenendo di offrire gratuitamente un servizio utile e accessibile in un ambiente familiare, ma ciò non basta a sciogliere le perplessità di fondo: l’accessibilità, se imposta, non è più un vantaggio ma una costrizione. Impossibile, infatti, parlare di vera scelta in un contesto in cui l’utente si trova a convivere con una funzione che non ha richiesto, che non può rimuovere, e che occupa una posizione strategica e visibile all’interno di un’applicazione da cui dipende ogni giorno per comunicare. Non è democratico imporre una tecnologia a milioni di persone senza offrire un’opzione di consenso esplicito e revocabile, né tanto meno lasciare che la trasparenza venga oscurata da design opachi e aggiornamenti automatici.

In un contesto digitale sano, l’Intelligenza Artificiale dovrebbe essere uno strumento scelto, non un automatismo dato per scontato. L’infrastruttura stessa della democrazia digitale si fonda sulla possibilità dell’utente di accettare o rifiutare, di valutare e decidere consapevolmente, non sull’imposizione silenziosa di strumenti che, per quanto avanzati, incidono profondamente sul comportamento, sulle abitudini e sulle scelte di chi li utilizza. Il diritto di scegliere è parte integrante del concetto stesso di cittadinanza digitale, ed è un diritto che va difeso tanto quanto quello alla privacy o alla sicurezza dei dati.

Allo stesso modo, non è coerente con un’economia liberale permettere che l’accesso a tecnologie decisive come l’Intelligenza Artificiale sia concentrato nelle mani di pochi soggetti dominanti, o peggio ancora di un solo offerente. Un mercato in cui uno solo detiene gli strumenti e i canali per imporre le proprie soluzioni non è libero, ma monopolistico. E un monopolio, per quanto mascherato da innovazione o da gratuità apparente, resta una minaccia concreta al pluralismo, all’innovazione vera e al progresso equamente distribuito.

Quando la concorrenza viene soffocata sul nascere perché l’accesso al mercato è riservato solo a chi già possiede miliardi di utenti e infrastrutture consolidate, non si tratta più di competizione, ma di dominio. Il caso Meta AI rappresenta quindi un campanello d’allarme che va oltre la singola app o il singolo servizio. Parla di un equilibrio delicato che rischia di spezzarsi nel momento in cui le grandi piattaforme iniziano a usare la loro presa sugli utenti per sperimentare nuovi prodotti senza alcun reale filtro regolatorio o contrattuale. Parla di come il design delle interfacce digitali possa diventare strumento di coercizione invisibile. Parla, soprattutto, della necessità urgente di ridefinire i confini dell’etica tecnologica e del diritto della concorrenza nell’era dell’Intelligenza Artificiale.

Se permettiamo che sia normale distribuire un assistente AI senza consenso, allora lo sarà anche l’idea che quell’assistente possa osservare, apprendere e influenzare le nostre abitudini senza che ci sia stato mai un reale atto di volontà. La tecnologia deve servire l’uomo, non assorbirne le libertà. E se Meta, attraverso WhatsApp, riesce a entrare in contatto con milioni di persone ogni giorno, è fondamentale che lo faccia nel rispetto di regole chiare, trasparenti e soprattutto reversibili. In caso contrario, ciò che si costruisce non è un ecosistema digitale equo, ma una struttura chiusa in cui l’utente non è più soggetto attivo ma terminale passivo di scelte fatte altrove.



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