Le beatitudini – Il testo del video
Esse sono gli atti conseguenti a una vita secondo le virtù e i doni dello Spirito Santo. I premi delle beatitudini: frutti incipienti già nella vita terrena, maturi in quella eterna. Buoni e malvagi: il realismo di san Tommaso. L’ottava beatitudine: conseguenza delle prime sette.
Come anticipato domenica scorsa, oggi dedichiamo questa Ora di dottrina alle beatitudini. Nell’art. 1 della quæstio 69 della I-II della Somma Teologica, san Tommaso espone la distinzione tra le beatitudini, i doni e le virtù. E questo perché un’obiezione comprensibile potrebbe essere questa: se le virtù sono gli abiti che abbiamo e che ci permettono di vivere secondo la ragione; se i doni sono altrettanti abiti, che ci permettono di vivere in sintonia con le mozioni dello Spirito Santo; allora non serve altro nell’organismo della vita umana e spirituale. Come si inseriscono le beatitudini?
San Tommaso risponde: «Le beatitudini si differenziano dalle virtù e dai doni non in quanto abiti da essi distinti, ma come gli atti si distinguono dagli abiti» (I-II, q. 69, a. 1). Le beatitudini non sono nuovi abiti sopraggiunti; ricordate cosa significa habitus: una qualità stabile, buona dell’anima, che ci dispone a operare virtuosamente, a compiere opere buone. Gli abiti sono delle qualità stabili. Le beatitudini non sono quindi una terza categoria di abiti dopo le virtù e i doni, ma sono invece gli atti che nascono e vengono nutriti da questa vita secondo le virtù e secondo lo Spirito Santo. Il cristiano che riceve in dono le virtù infuse (le virtù teologali e cardinali) e i doni dello Spirito Santo vive una vita al livello delle beatitudini evangeliche. Non è semplicemente, per così dire, un “buon uomo”, ma vive secondo la misura evangelica che ci viene data appunto nelle beatitudini. Sapete che le beatitudini – che sono otto secondo la versione di san Matteo, quattro secondo quella di san Luca – sono come una sorta di legge nuova del cristiano. Non a caso, nella versione di san Matteo, il Signore dà questa nuova legge sul monte, a indicare il parallelo chiarissimo con Mosè, che aveva ricevuto la legge antica da Dio su un monte, il Sinai.
Le beatitudini quindi si inseriscono come gli atti conseguenti a una vita secondo le virtù infuse e i doni dello Spirito Santo. Riguardo ai testi evangelici che ci presentano le beatitudini, san Tommaso prende in considerazione prevalentemente il Discorso della Montagna (Mt 5, 3-12) riportato nel primo Vangelo, cioè nel Vangelo di san Matteo.
Le beatitudini hanno questa struttura: «Beati…» seguito da una caratteristica e poi c’è il premio. Ad esempio: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli». Il regno dei cieli è il premio conseguente alla beatitudine. Ora, san Tommaso si chiede se questi beni, questi premi che sono legati alla beatitudine vissuta abbiano a che fare con questa vita o solamente con la vita nella patria, la vita eterna, in Paradiso. Questa è una questione importantissima. La filosofia morale si chiede se la virtù sia un premio in sé o no. Se il premio della beatitudine non avesse nulla a che fare con la vita terrena, ma solo con l’altra, allora diremmo che le beatitudini non avrebbero a che fare propriamente con la vita buona del cristiano su questa terra, sarebbero un po’ come qualcosa che facciamo e, per il resto, tutto è rinviato a dopo. Ma questo vorrebbe dire che ciò che noi compiamo, cioè la vita stessa che noi abbiamo secondo le beatitudini, non sarebbe già un bene di per sé.
San Tommaso riporta un testo importante di sant’Agostino, che afferma: «In questa vita è possibile vedere il compimento di queste promesse, come le crediamo adempiute negli Apostoli. Poiché quella trasmutazione totale nella forma angelica, che è promessa dopo questa vita, non si può spiegare con nessuna parola». Cioè, sant’Agostino ci dice: già in questa vita noi vediamo il compimento di queste promesse. Quello che sarà dopo non sarà evidentemente tutt’altro, ma non può essere narrato, comunicato dall’esperienza umana. Non ne abbiamo esperienza.
Tommaso fa questo ragionamento: «Per chiarire la cosa si deve notare che la speranza della beatitudine futura può trovarsi in noi in due modi: primo, mediante una preparazione o disposizione alla futura beatitudine, sotto forma di merito; secondo, mediante un inizio imperfetto della futura beatitudine, realizzato nei santi anche in questa vita». E fa un esempio per spiegare il concetto: «Infatti la speranza di vedere fruttificare un albero quando esso si copre di foglie è diversa da quella determinata dall’apparire dei frutti incipienti» (I-II, q. 69, a. 2). Che cosa ci sta dicendo qui san Tommaso? Quando noi parliamo delle beatitudini, abbiamo due prospettive. La prima è quella del merito, cioè vivere la povertà di spirito, la mansuetudine, la misericordia, eccetera, ci dispone alla beatitudine, sia quella perfetta sia quella iniziale: mi preparo a. La seconda prospettiva è il premio vero e proprio. Il premio può essere considerato sotto due punti di vista: o dal punto di vista della sua perfezione o da quello del suo essere incipiente, iniziale. Pensiamo all’albero che ha le foglie: un conto è vedere le foglie, un altro è vedere i frutti anche se non pienamente maturi, ma incipienti, che sono nella loro fase iniziale ma ci sono. Tommaso dice infatti che non è la stessa cosa vedere l’albero che fa le foglie (e che si dispone a fare frutti) e l’albero che fa il frutto, anche se non è ancora maturo.
Allora Tommaso dice: «Perciò, quanto nelle beatitudini è accennato come merito costituisce appunto una preparazione o disposizione alla beatitudine, perfetta o iniziale. Quanto invece è presentato come premio può essere o la stessa beatitudine perfetta, e allora appartiene alla vita futura, oppure un inizio di beatitudine, come avviene nei santi, e allora il premio appartiene alla vita presente» (ibidem). Il merito, la preparazione appartiene sicuramente alla vita presente. Riguardo al premio, dipende: se lo consideriamo come una pregustazione, un assaggio, qualcosa di incipiente ma reale, presente, allora ha a che fare già con questa vita; se invece lo consideriamo nella sua piena attuazione, nella sua piena maturazione e stabilità, allora appartiene all’altra vita. Dunque, non possiamo dire né che appartiene solo alla vita futura né solo alla vita presente, ma appartiene ad entrambi in modi diversi.
Il tema è interessante perché, nella seconda obiezione, san Tommaso pone davanti il problema che noi stessi ci poniamo tantissime volte: quando noi prendiamo la versione di san Luca, troviamo quattro beatitudini e quattro guai, a indicare i due lati della medaglia, cioè la beatitudine con il suo premio e ciò che è il contrario della beatitudine, con la sua condanna, il castigo. Tommaso obietta: «Queste pene non si riferiscono a questa vita perché spesso gli uomini qui non vengono puniti, come notava Giobbe: “Finiscono nel benessere i loro giorni”. Perciò neppure i premi delle beatitudini appartengono alla vita presente». Questa è una grande obiezione di fronte alla quale spesso l’uomo cade nello scandalo: perché gli uomini iniqui non vengono puniti qui? E se loro non vengono puniti qui, chi vive nel bene fa una vita da cani… non gode qui della beatitudine. Quindi, sembrerebbe una separazione completa tra ciò che accade qui e ciò che accade dopo la nostra morte. San Tommaso però risponde così alla suddetta obiezione: «I malvagi, sebbene talora non soffrano in questa vita pene temporali, soffrono tuttavia quelle spirituali. Perciò sant’Agostino diceva [è una citazione dal cap. 1 delle Confessioni]: “Hai comandato, o Signore, e così è, che l’animo disordinato sia pena a sé stesso”».
San Tommaso ci dice di fare attenzione a non essere superficiali nelle nostre valutazioni, perché se vediamo l’uomo iniquo arricchirsi, essere coperto di onori, essere sostenuto dal consenso, se vediamo insomma che gli va tutto bene, non dobbiamo ingannarci, perché quella è solo la superficie. Invece, la “regola”, che è una sorta di comando divino, di cui parla sant’Agostino e citata da san Tommaso, è che l’animo disordinato è «pena a sé stesso»; chiunque commette il male, già è afflitto da una pena, perché il disordine è disordine, e ciò che non è ordine non può rendere felice l’uomo. Ci sono mille artifici che noi possiamo mettere in atto per evitare che gli altri vedano questa infelicità, ma il vuoto di virtù, il vuoto di bene, il vuoto di vita nel bene e nella grazia è già una pena in sé, anche se dal punto di vista delle pene temporali può andare avanti di lusso, almeno per un certo periodo, non sempre.
«Parimenti – dice san Tommaso – i buoni, sebbene in questa vita non ricevano talora dei premi materiali [guardate il realismo di Tommaso: lui non dice che ai malvagi va sempre bene tutto, mentre ai buoni gli va sempre male tutto; ma dice che talvolta agli empi le cose vanne bene, talvolta no; similmente, per i buoni ci sono talvolta dei premi materiali e talvolta no], tuttavia non mancano mai di quelli spirituali; secondo le parole evangeliche: “Riceverete il centuplo anche in questa vita”» (I-II, q. 69, a. 2, ad 2). Questo è un aspetto che facciamo fatica a capire: per noi la vita buona, la vita nella verità, nella virtù, secondo lo Spirito, dovrebbe portarci dei beni materiali, altrimenti è una fregatura… ma non è così; e non perché non ce li porti mai in assoluto, Dio infatti provvede, poi magari noi abbiamo dei criteri che non sono quelli di Dio, ma il tema è un altro. Il tema è che la vita virtuosa, la vita secondo i doni dello Spirito Santo, la vita secondo le beatitudini è già in qualche modo un premio in sé. Cioè, c’è un “ritorno”, un premio che è già incipiente in questa vita; qui non è definitivo, non è stabile, non è pieno, ma già c’è, già lo pregustiamo, ed è quella profonda pace che i santi hanno saputo gustare e avere anche in mezzo a mille tribolazioni. È una pace che invece l’empio, anche in mezzo a mille piaceri, non riesce minimamente neanche ad immaginare. Quindi vedete che il tema è importante, è un tema esistenziale, è il tema del perché i buoni in questa vita possano soffrire e del perché sembra che gli empi in questa vita non soffrano: in realtà, se andiamo un po’ più in profondità rispetto al mero livello del bene o del male materiale, troviamo che invece il premio della beatitudine è già incipiente in colui che lo vive in questa vita.
Negli articoli 3 e 4 della quæstio 69, san Tommaso ci presenta una sorta di architettura delle beatitudini. La prima premessa è questa: nell’art. 3 si parla delle beatitudini in sé stesse, nell’art. 4 si pone attenzione al premio legato alle beatitudini. La seconda premessa è che l’ottava beatitudine, quella più lunga nel testo del Vangelo, forse meno piacevole, «beati voi quando vi perseguiteranno...», per Tommaso va considerata come qualcosa da tenere a parte, perché, come dice nella risposta alla quinta obiezione dell’art. 3, «l’ottava beatitudine è una certa conferma e manifestazione di tutte le precedenti, poiché dal fatto che uno è confermato nella povertà di spirito, nella mansuetudine e in tutte le altre beatitudini, deriva il suo attaccamento a questi beni nonostante tutte le persecuzioni. Per cui l’ottava beatitudine appartiene in qualche modo alle sette precedenti» (I-II, q. 69, a. 3, ad 5). San Tommaso ci sta dicendo che chi vive le sette beatitudini vive anche l’ottava perché chi vive la mitezza, la misericordia, la povertà di spirito, chi ha fame e sete della giustizia, eccetera, sicuramente verrà perseguitato in questa vita dai demoni, dagli uomini, dalla concupiscenza, e quindi soffrirà persecuzioni. Quindi, l’ottava beatitudine è l’“omaggio” delle altre sette: se viviamo le sette beatitudini, l’ottava – quella delle persecuzioni – ci viene data in regalo, è connessa chiaramente alle altre sette.
Ora vediamo appunto le prime sette beatitudini. Come le organizza, come le distribuisce Tommaso? Come cerca di trovare il loro filo conduttore? Le classifica secondo tre criteri. Un gruppo di beatitudini riguarda quelle beatitudini che rimuovono da noi la falsa beatitudine; Tommaso ci dice che per sperimentare la vera beatitudine è necessario che ci siano tre beatitudini che rimuovono quelle false. Adesso le vedremo. Rimosse le false beatitudini, abbiamo la beatitudine che si divide in due: quella della vita attiva e quella della vita contemplativa. Per vita attiva si intende tutto ciò che gli uomini devono compiere di bene nei confronti del prossimo. Invece la vita contemplativa riguarda il punto di arrivo, il godimento della visione di Dio, che è la beatitudine per eccellenza. Andiamo con ordine.
«Il Signore mise per prime alcune beatitudini atte a rimuovere l’ostacolo della falsa beatitudine» (I-II, q. 69, a. 3). E quali sono? La prima è «beati i poveri in spirito». E che cosa rimuove? Rimuove quella falsa felicità che ci viene dal ricercare la beatitudine nelle ricchezze e negli onori, cioè quella tendenza radicata nella natura decaduta dell’uomo di pensare che la beatitudine si collochi nell’abbondanza dei beni esterni, materiali (la casa, la macchina, i soldi) e anche in quelle ricchezze non materiali ma che riguardano gli onori, le cariche, la stima. La prima beatitudine, «beati i poveri in spirito», caccia via immediatamente questo gruppo di false beatitudini. Proprio perché questa beatitudine lavora su questo aspetto, promette il regno dei cieli, come dire: non fatevi ingannare, perché Gesù ci mette già davanti quello che sarà il premio; avremo il regno dei cieli, quindi il nostro desiderio di ricchezze e onori sarà ampiamente compensato nel regno, sarà il regno, faremo parte del regno. Non è che dobbiamo essere poveri in spirito in questa vita e poi, nell’altra, saremo gabbati: Gesù ci dice in sostanza di non cercare un regno terreno perché ci è promesso quello eterno. Dunque, sia la beatitudine che il premio lavorano a questo livello.
La seconda è «beati i miti», perché l’altra grande spinta che ci viene data è quella della potenza irascibile. La passione dell’irascibile ci porta a pensare che bisogna imporsi con la forza, sgomitare per avere la felicità quaggiù. Tommaso ci dice invece che non è così perché «la virtù che mediante la regola della ragione distoglie l’uomo dal seguire la passione dell’irascibile, perché in essa non ecceda» è una virtù che ci salva, che ci permette di togliere quella falsa pretesa di beatitudine che nasce appunto dall’irascibile e che ci porta a seguire questa idea di doverci imporre con la forza, con la malizia in questa vita. E il premio che ne deriva è proprio l’ereditare la terra. Mentre gli uomini pensano che il possesso della terra ci dà la sicurezza – economica, rispetto alle altre nazioni, eccetera – e quindi per avere questa sicurezza utilizziamo male la potenza irascibile, il Signore ci dice l’opposto, cioè che se noi viviamo la mitezza, ossia questa pacificazione dell’irascibile, erediteremo la terra. Quindi la terra non sarà ereditata come pensiamo noi uomini, ma seguendo questa beatitudine. Ancora una volta il premio ci viene presentato per distogliere il nostro sguardo dal falso premio che nasce dalla falsa beatitudine e per concentrarlo sul vero premio, quindi sulla vera beatitudine.
La terza beatitudine è «beati gli afflitti». Qui abbiamo l’altra passione, quella del concupiscibile. Questa beatitudine spazza via tutte quelle strategie che noi mettiamo in atto per non essere afflitti, cioè tutto ciò che noi ricerchiamo nel piacere concupiscibile. Invece questa beatitudine ci dice “beato te, se sei afflitto”, cioè se ti privi volontariamente di cose che non ti danno la beatitudine, ma ti rendono poi schiavo. Quindi, «beati gli afflitti, perché saranno consolati». Ancora una volta il premio ci mette davanti la vera consolazione promessa e già incipiente, ricordate quello che abbiamo detto poco fa, per aprirci gli occhi e non cadere nell’idea che il seguire la concupiscenza sia la fonte della nostra consolazione: quella consolazione è una consolazione effimera, fasulla, che poi anzi si rivela una schiavitù.
Quindi, quelle appena viste sono le tre beatitudini che aiutano a liberare il campo dalla falsa beatitudine e dai falsi premi che pensiamo di ottenere vivendo in modo opposto alle vere beatitudini.
Poi abbiamo le beatitudini della vita attiva, la quale, come dice Tommaso, «consiste specialmente nei servizi che rendiamo al prossimo, sotto forma di doveri, o di benefici spontanei» (ibidem). Allora, quando noi diamo al prossimo ciò che al prossimo è dovuto, ecco che viviamo la beatitudine di quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché la giustizia è precisamente questo dare a ciascuno il suo, ciò che gli è dovuto. E il premio è la sazietà: «… sarete saziati». Spesso a trattenerci dal vivere secondo questa beatitudine, cioè la fame e la sete della giustizia, è la paura di rimanere noi senza “sazietà”, e dunque pensiamo, per dirla in termini terra terra, che vivendo in modo ingiusto abbiamo più possibilità di essere saziati, di saziare le nostre attese, i nostri bisogni. E quindi spesso agiamo ingiustamente pensando così di poter ottenere qualcosa per noi. La beatitudine invece ci dice che la fame e la sete della giustizia ci portano il premio della sazietà, non il contrario.
Ancora, la vita attiva ci porta non solo a dare al prossimo ciò che gli si deve, ma anche qualcosa in più, cioè ad essere attivi nei benefici gratuiti da dare al prossimo, ossia quei benefici che non sono propriamente a lui dovuti. E qui abbiamo la beatitudine della misericordia, che nella nostra mentalità può essere pensata come la “virtù dei fessi” e invece il premio connesso ci dice un’altra cosa: il premio connesso ci dice che «i misericordiosi troveranno misericordia». Dunque, colui che vive la misericordia non resterà con niente in mano, ma riceverà a sua volta una misericordia più grande, da parte di Dio stesso.
L’ultimo blocco è quello delle beatitudini della vita contemplativa. Una di queste beatitudini è la purezza di cuore. Qual è il premio connesso alla purezza del cuore? Vedere Dio. Dunque, la beatitudine della vita contemplativa – il vedere Dio – dipende dall’avere il cuore puro. Rovesciando il discorso, vuol dire che, se il cuore non è puro, Dio non può essere visto. La visione di Dio è la beatitudine. Dunque, la mancanza di purezza di cuore colpisce direttamente la nostra destinazione alla beatitudine eterna, cioè la mancanza di questa beatitudine ci porta a fallire il senso della vita cristiana.
E poi abbiamo «beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio». L’altra componente della beatitudine è proprio vivere la figliolanza con Dio, che è data, è concessa a coloro che vivono la pace, vivono nella pace, operano secondo la pace. La pace non è quel concetto molto nebuloso di cui si parla in continuazione, ma è quell’effetto dell’ordine ristabilito, quindi dell’ordine con Dio, dell’ordine con me stesso, dell’ordine con il mio prossimo, dell’ordine con la creazione.
Abbiamo visto dunque come Tommaso presenta l’articolazione delle beatitudini. La prossima volta concludiamo questa sezione, parlando dei frutti dello Spirito Santo.
Le beatitudini
Esse sono gli atti conseguenti a una vita secondo le virtù e i doni dello Spirito Santo. I premi delle beatitudini: frutti incipienti già nella vita terrena, maturi in quella eterna. Buoni e malvagi: il realismo di san Tommaso. L’ottava beatitudine: conseguenza delle prime sette.
I doni dello Spirito Santo (II parte) – Il testo del video
San Tommaso ci offre l’architettura dei sette doni dello Spirito Santo, spiegandoci quali di essi agiscono nella ragione dell’uomo e quali nella volontà. Il presupposto dei sette doni e la loro connessione: la carità. Il rapporto tra virtù e doni.
I doni dello Spirito Santo – Il testo del video
Nella Summa san Tommaso spiega che «i doni dello Spirito Santo sono abiti che servono a predisporre l’uomo a obbedire prontamente allo Spirito Santo». La differenza con le virtù. Noi e l’iniziativa divina: l’immagine della barca a vela.


