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CORSA CONTRO IL TEMPO

Un treno per Alfie

L’esercito di Alfie di migliaia di sostenitori, Alfie’s Army, con a capo Tom e Kate, urla al mondo il suo grido e chiede un’ultima chance, quella di venire in Italia, a Roma, nell’Ospedale del Vaticano, il Bambino Gesù, come a chiedere asilo politico. 

Editoriali 22_03_2018

Quando stai per perdere il treno, puoi scegliere di fermare il passo e vedere il treno sfumare all’orizzonte o iniziare a correre e tentare in extremis di salire sul treno in partenza, anche se sembra impossibile, e magari lo è. La sensazione nel primo caso è di sconfitta passiva, senza possibilità di vittoria, senza speranza, nel secondo caso di sconfitta attiva, con possibilità di vittoria, con speranza. Tom Evans e Kate James, genitori di Alfie Evans, hanno scelto di correre verso il treno.

La coppia di sposi dal dicembre del 2016 ad oggi ha il proprio figlio, di 21 mesi, ricoverato presso l’Alder Hey Children’s Hospital di Liverpool in Terapia Intensiva Pediatrica, in quanto affetto da una patologia neurodegenerativa ad eziologia sconosciuta, che ha portato ad una lenta e progressiva perdita delle sue funzioni neurologiche. Nonostante le indagini ad ampio raggio condotte dal team medico alla ricerca di una diagnosi che possa spiegare e quindi eventualmente curare il presunto difetto metabolico alla base, non si è giunti ad una risposta positiva. Nei suoi 15 mesi di vita in ospedale, quello che è stato fatto, e continua ad essere fatto al momento, è il supporto delle funzioni vitali tramite ventilatore meccanico, per respirare, sondino naso-digiunale, per nutrirsi e idratarsi, farmaci anti-epilettici, per sedare le crisi epilettiche, e infine l’uso di antibiotici profilattici, per prevenire le infezioni.  È quanto emerge dal report stilato dallo staff medico-infermieristico relativo alla sua lunga degenza.

Tutto ciò che è stato fatto finora tra pochi giorni potrebbe inesorabilmente essere interrotto, withdrawn, terminato, in quanto il 20 febbraio 2018 è stata pronunciata una sentenza dall’Alta Corte Inglese dal Giudice Anthony Hayden, in cui è stato deciso che “il supporto ventilatorio continuo non è nel miglior interesse di Alfie e in tali circostanze non è lecito che tale trattamento continui” e la decisione è stata ribadita con la sentenza della Corte Suprema di non rivedere il caso.  

A questo punto riguardo proprio al trattamento ci si pone una domanda: si tratta di mantenere in vita una persona che sta morendo, o di permettere a una persona che non sta morendo di continuare a vivere, anche se affetta da grave disabilità? Come scrive su RenewAmerica il Prof. Paul Byrne, accademico americano, docente di neonatologia, uno dei pionieri nell’uso dei ventilatori in neonatologia, non rientra nella definizione di mezzo straordinario né sproporzionato un ventilatore usato per salvare o supportare la vita. Poiché la ventilazione e la respirazione sono due requisiti fondamentali per la vita sulla terra, in ogni condizione che richieda tale supporto, va portata avanti. Tuttavia qualora si configuri la necessità di prolungare il suo uso oltre le due settimane, andrebbe sostituito il tubo endotracheale con una tracheotomia, finora non praticata su Alfie, ausilio che gli avrebbe permesso una gestione al di fuori di una terapia intensiva pediatrica. “Togliere il ventilatore ad Alfie significherebbe condannarlo a morte” dichiara su LifeSiteNews.

Il padre Tom Evans, che nonostante i suoi 21 anni, nonostante abbia lasciato la scuola a 16 anni, nonostante sia apprendista intonacatore, che rappresenta sé stesso in tribunale e stupisce la Corte per la sua profonda e articolata conoscenza medica, mantiene la lucidità e la saggezza per comprendere che quello che si sta decidendo per Alfie è una morte imposta, procurata e non un accompagnamento alla sua morte naturale, non un rifiuto di accanimento terapeutico. L’esercito di Alfie di migliaia di sostenitori, Alfie’s Army, con a capo Tom e Kate, urla al mondo il suo grido di guerra, “he is going to live”, e chiede un’ultima chance, quella di venire in Italia, a Roma, nell’Ospedale del Vaticano, il Bambino Gesù, come a chiedere asilo politico. E se non in Italia al Munich Hospital in Germania e se non lì, a casa a morire quando per lui sarà l’ora.

Ma cosa può offrire di più questo ospedale italiano, rispetto all’eccellenza in cui si trova adesso? Entrambi gli ospedali hanno elevate competenze nella ricerca delle malattie rare, hanno ottimi esperti nello studio e controllo delle malattie neurologiche, hanno le più sofisticate metodiche di ricerca d’avanguardia.

Cosa chiede quindi Tom in più? Forse chiede solo che se ci sono ancora strade da percorrere nella diagnosi, come per esempio l’indagine sul genoma, siano percorse, che gli venga permesso di respirare, anche tramite tracheotomia, se i suoi polmoni sono ancora tali da permettere gli scambi gassosi in modo adeguato, che si continui a nutrire e idratare, anche tramite gastrostomia (PEG), che possa ancora reagire agli stimoli esterni che lo raggiungono, come sta facendo, che possa infine percepire l’immenso amore che i suoi genitori gli stanno offrendo, e che è l’unico bisogno primordiale, il sentirsi amati, che abbiamo da soddisfare, e che lui ha.  In Italia, con i nostri protocolli, con le nostre linee guida, con le nostre raccomandazioni basati sulle evidenze scientifiche, vi sono ancora medici che lasciano aperta la possibilità di continuare il viaggio della vita, anche se precario, perché credono nella vita, nella sua intangibilità, nella sua dignità intrinseca, nella sua imprevedibile preziosità, e che declinano nella pratica clinica questi valori con la prosecuzione di idratazione, nutrizione e ventilazione meccanica.

Credo che Tom veda questo nella realtà italiana. Non si illude di vedere il proprio figlio tornare sano come ciascun genitore vorrebbe; è consapevole, che presto o tardi arriverà il momento di lasciare quella manina e passarla ad un altro Padre, ma spera. Spera sia rispettato il decorso naturale della sua malattia, spera che non sia messa in atto la sentenza di morte pronunciata sulla sua testa, spera che non si chiami rifiuto di accanimento terapeutico quella che è eutanasia, spera infine di poter correre verso quel treno con Alfie in braccio e di poter salire.