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MEDIO ORIENTE

Tuoni e fulmini a Monaco: inizia lo scontro Israele-Iran

Conferenza di Monaco per la sicurezza. Con un pesante scontro verbale fra il premier israeliano Netanyahu e il ministro degli Esteri iraniano Zarif, inizia lo scontro fra Israele e Iran. A monte della crisi c'è l'accordo sul nucleare iraniano del 2015, voluto da Obama e dall'Ue. Alle spalle dell'Iran c'è la Russia di Putin con un ruolo sempre più aggressivo nel Medio Oriente.

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Esteri 19_02_2018
Netanyahu mostra, alla conferenza di Monaco, un pezzo del drone iraniano abbattuto

I lampi e i tuoni che hanno imperversato a Monaco di Baviera domenica, nella giornata conclusiva della Conferenza sulla sicurezza globale, e l’atmosfera grigia gravata in precedenza sui lavori di questa 54.ma sessione, testimoniano dello stato di sfiducia e diffidenza, persistenti tensioni e palesi contrasti che pervade le relazioni internazionali all’inizio di quest’anno, al di là della non conclusa lotta all’Isis e al fondamentalismo islamico, come conseguenza della mancata composizione del conflitto siriano e dall’ingresso di Donald Trump alla Casa Bianca.

Paradossalmente si è alterato l’effetto che la Russia intendeva perseguire con il suo intervento diretto nella guerra in Siria: quello cioè di rafforzare il potere del regime di Damasco, suo stretto amico dai tempi dell’Urss, per mantenerlo parte viva e forte di quegli  equilibri fra le principali nazioni del Vicino e Medio Oriente, che si erano stabiliti dopo i tre conflitti arabo-israeliani del secolo scorso. Il Cremlino, con la sua diretta ingerenza militare, vittoriosa,  ha infatti dato vita ad una nuova egemonia politica regionale che se ha soddisfatto le sue ambizioni strategiche sul Mediterraneo, non vede più la Siria in una posizione centrale, bensì l’Iran sciita. Che è pure grande amico della Russia, tanto che grazie ad essa sta diventando una potenza atomica. Ma è anche potenza da sempre rivale del mondo sunnita che, seppure abbia da sempre goduto del forte sostegno amichevole degli Stati Uniti, oggi si presenta molto indebolito.

Indebolimento dell’islam sunnita che già si era palesato durante la precedente amministrazione Usa per l’accordo nucleare stipulato nel 2015 con l’Iran dal presidente Obama, d’intesa con l’Unione Europea. La trattativa, si ricorderà, fu osteggiata in tutti i modi, ma senza successo, dall’alleato più stretto degli Stati Uniti, Israele, che invano denunciava l’ ostentata, continua, minaccia radicale del regime degli ayatollah alla sua esistenza. Paragonabile a quella dei movimenti palestinesi oltranzisti, come Hamas e Jihad islamica, e a quella del movimento sciita libanese Hezbollah. Questo movimento ha partecipato con i suoi uomini alla guerra siriana, a fianco dei russi e degli iraniani, ed oggi dal Sud Libano – da sempre sua roccaforte militare  –  viene avvertito come una accresciuta minaccia da Israele, tanto da indurlo a rafforzare il confine che li separa con la costruzione di un muro.

Della deviazione avvenuta nella politica americana nel Vicino e Medio Oriente si è ben reso conto il presidente Donald Trump, tanto da rafforzare subito, recandosi a Riad poco dopo l’elezione, i legami con l’Arabia Saudita. Egli, ancora in questi giorni, ha detto di “non riuscire a superare il fatto che (il suo predecessore) Obama abbia dato 1,7 miliardi di dollari in contanti all’Iran senza che nessuno, né il Congresso, né l’FBI, né la Giustizia  – ha aggiunto polemicamente, riferendosi all’inchiesta sul Russiagate  – abbia aperto un’indagine”.  E’ l’ultimo particolare venuto a conferma dell’intrapresa strada di sconfessione di Obama, soprattutto in politica estera, una via che non sappiamo dove potrà condurre, foriera però di  possibili guai.

Sullo sfondo di questo scenario si sono confrontati  a Monaco di Baviera, in una “retorica di fuoco” com’è stata definita, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif. “Israele non permetterà al regime iraniano di mettergli un cappio di terrore al collo”, ha detto Netanyahu che, per smentire le smentite di Teheran, ha ironicamente mostrato il frammento di un drone iraniano penetrato nei giorni scorsi, e abbattuto, sul territorio ebraico dal Nord. “Agiremo senza esitazioni a difenderci. E se necessario interverremo non solo contro gli alleati dell’Iran ma anche contro l’Iran”. Oscurando infine il clima di tempesta: “Oggi l’Iran è la maggiore minaccia per il nostro mondo. Minaccia di distruggere Israele, ma la minaccia è anche per voi” perché “conduce nella regione una politica sempre più aggressiva”.

Altrettanto dura la replica di Zarif, seppure introdotta dal tentativo di “sgonfiare” l’ immagine del rivale, da lui definito “fumettista da circo”, banditore di “propositi che non meritano neanche una risposta”. Quindi l’affondo sulla presunta invincibilità di Israele e la minaccia secondo cui Teheran non resterà a guardare: “Posso garantirvi, afferma, che se gli interessi dell’Iran fossero minacciati, l’Iran risponderà con fermezza. E, credetemi, sarà una risposta che farà rimpiangere di aver agito contro di noi”.

Il nodo del contrasto, e del malessere degenerato a Monaco nella veemenza verbale, sta nell’accordo nucleare del 2015. Per l’ex segretario di Stato americano John Kerry, tra i suoi artefici e presente in Baviera, “è sbagliato presumere che l’Iran si doterà dell’atomica prima delle scadenze (previste nell’accordo). Partire da tale assunto, il suo monito rischierebbe di mettere fuoco alle polveri”. Questo ragionamento, se induce a un momento di sollievo, lascia però inalterati nell’arena internazionale la pericolosità immanente e le preoccupazioni crescenti a causa dei nuovi equilibri che si sono palesati nel Vicino e Medio Oriente. Dietro ad essi ci sono però i tanti interrogativi aperti, non solo come abbiamo accennato, dalla politica estera del presidente americano Trump, su tanti fronti, all’insegna fra l’altro dell’isolazionismo e del protezionismo; ma anche dalla condotta, spregiudicata e ambiziosa, su scala mondiale del presidente russo Vladimir Putin.

Così in questa Conferenza “sulla sicurezza globale” non si poteva non parlare  –  e si è parlato senza reticenze  –  delle ingerenze russe nell’Est Europa e delle loro conseguenze recenti, al di là delle sanzioni, nei rapporti con l’Alleanza Atlantica come organismo di difesa collettivo e con i paesi occidentali membri, soprattutto europei. Non sono state sottaciute le lacerazioni nel Caucaso prima, poi in Ucraina: qui non solo con l’occupazione e annessione della Crimea ma anche, con il conflitto tuttora alimentato per separare le regioni del Donbass; come non sono mancati i ridimensionamenti, le motivazioni, le smentite dei russi. Non si è però usciti da questo “confronto tra sordi”, accrescendo il disagio e le perplessità del mondo diplomatico e il rafforzamento delle misure militari adottate, con l’aumento generalizzato delle spese.

Una crisi dunque che non decanta né che stia offrendo spiragli di intese, pur in un contesto formalmente controllato da Putin per consolidare la situazione a suo vantaggio e per evitare che, scappandogli di mano, degeneri. Per questo i lampi e i tuoni dalle parti del Vicino e Medio Oriente hanno impressionato, ma non allarmato.