Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
San Giovanni della Croce a cura di Ermes Dovico
COMUNISMO CINESE

Taiwan e Cina sul filo del rasoio. Ma Xi Jinping si modera

Colloqui al vertice fra Cina e Ue e fra Cina e Usa, sul pomo della discordia principale: Taiwan. Il Paese, di fatto indipendente, non è riconosciuto ufficialmente da nessuno. Ma, anche per merito del peggioramento dei rapporti con Pechino, informalmente ha più contatti con l'Ue e con gli Usa. La crisi cresce, ma Xi Jinping smorza i toni. Per la crisi interna.

Esteri 14_10_2021 English Español
Taiwan, la festa nazionale del 10 ottobre

Taiwan e Cina, senza l’accento sulla “e”. Taiwan è Cina, con l’accento sulla “è”. È tutta in questa differenza la crisi ormai quasi secolare fra Repubblica Popolare Cinese e Taiwan, che in questi ultimi tre mesi sta vivendo una notevole recrudescenza, con colloqui a livello internazionale per cercare di placare la tensione, ma anche esercitazioni militari veramente minacciose.

“Taiwan è Cina” è la tesi del Partito Comunista Cinese: dichiarandosi il vincitore della guerra civile (1945-49) rivendica il possesso di tutto il territorio cinese, non ammette l’esistenza di un territorio separato, occupato, nella ritirata, dalle ultime divisioni nazionaliste cinesi nel 1949. “Taiwan e Cina” è invece l’obiettivo del Partito Progressista Democratico, la sinistra di Taiwan, che non rivendica più lo status di unico governo cinese legittimo, come era tipico dei nazionalisti, ma chiede di formalizzare un’indipendenza che già c’è di fatto. Taiwan e la Cina sono separate da uno stretto braccio di mare, ma fra loro c’è un abisso. La prima è una delle più promettenti democrazie orientali, all’avanguardia nelle nuove tecnologie ed è un Paese libero, in cui tutti i diritti sono garantiti. La seconda, come è noto, è sotto il più grande regime comunista del mondo, un regime che ha saputo rinnovarsi e stare al passo coi tempi, ma sempre estremamente repressivo e dotato della capacità di controllare strettamente i suoi cittadini.

La recrudescenza della crisi, in questi mesi, è dovuta al peggioramento generale delle relazioni fra la Cina e le democrazie occidentali, soprattutto dopo la diffusione (dalla Cina) del Covid-19. La tensione più forte è fra Cina e Australia, con quest’ultima che ha deciso, con il trattato Aukus, di dotarsi anche di sottomarini a propulsione nucleare. Ma anche con gli Usa stessi (nonostante il cambio di presidenza, da Trump a Biden) e con l’Ue, le relazioni sono più tese del solito.

Innanzitutto con l’Ue, il 15 ottobre (domani, per chi legge), è previsto un incontro virtuale fra Charles Michel, presidente del Consiglio europeo e il presidente cinese Xi Jinping. Il pomo della discordia è la Lituania. La piccola repubblica baltica ha aperto nella capitale Vilnius una nuova rappresentanza diplomatica di Taiwan. E il dettaglio che Pechino considera grave è che porti il nome di “Taiwan”, che per Pechino non deve esistere. Per il prossimo mese, è prevista una visita di una delegazione taiwanese in Lituania e in altri Paesi dell’Europa centrale. E in dicembre, invece, è in agenda una visita di un gruppo parlamentare lituano sull’isola “ribelle”, guidato da Matas Maldeikis (capo del gruppo di amicizia Taiwan-Lituania). Ma le relazioni pericolose fra Ue e Taiwan non si limitano alla sola Lituania. La Francia stessa è nel mirino dopo che, lo scorso 10 ottobre, una delegazione parlamentare francese, guidata dal senatore Alain Richard ha visitato l’isola. E l’Ue, nel suo insieme, non ha affatto terminato i colloqui con il governo di Taipei, per un accordo bilaterale sugli investimenti. Anche martedì 12 ottobre la presidente Tsai Ing-wen ha “incontrato” in remoto le massime cariche europee per questo motivo.

Il braccio di ferro con gli Usa, invece, assume tinte decisamente più forti, perché in ballo ci sono anche questioni militari, non solo diplomatiche e commerciali. Secondo le rivelazioni del quotidiano Wall Street Journal, uno dei più attenti sull’Asia orientale, una ventina di consiglieri militari statunitensi, appartenenti a forze speciali e al corpo dei Marine, sarebbero ancora presenti a Taiwan per addestrare le truppe di terra locali. La presenza americana, piccola e non ufficiale, è motivata dalla preoccupazione per l’atteggiamento ostile cinese, ma anche dalla condizione stessa delle forze di difesa taiwanesi. Forse cullati dall’illusione di una pace con Pechino, infatti, nei primi 15 anni dei 2000, i governi precedenti di Taipei hanno trascurato gli investimenti nella difesa. Nonostante negli ultimi sei anni vi sia stato un po’ di recupero, l’esercito taiwanese rischia di non costituire più un deterrente sufficiente a scoraggiare un’azione di forza cinese. La presenza americana ha però provocato l’ira di Pechino, che ha affidato a un editorialista del Global Times, dunque un giornale in inglese e semi-ufficiale, le dichiarazioni più bellicose: la presenza di truppe statunitensi sull’isola è una “linea rossa che non deve essere passata” e in caso di guerra, gli americani “saranno i primi ad essere eliminati”. Eppure un canale diplomatico resta aperto. Non è ancora stata fissata la data, ma è comunque previsto un incontro telefonico fra il presidente Biden e Xi Jinping entro la fine dell'autunno.

Lo scorso 6 ottobre, il ministro taiwanese della Difesa Chiu Kuo-cheng ha affermato che la Cina sarà in grado di lanciare un attacco su “vasta scala” contro l’isola entro il 2025. E lo ha detto nel bel mezzo di un’escalation di esercitazioni molto bellicose e realistiche. Oltre a manovre di sbarco sulla costa di fronte a quella di Taiwan, ben 150 aerei cinesi, fra cui anche bombardieri H-6 capaci di portare testate nucleari, hanno sorvolato le acque vicine a Taiwan, a ridosso del suo spazio aereo (che non è riconosciuto come un confine ufficiale, ma come un’area di difesa aerea esclusiva).

Xi Jinping, nel suo discorso del 9 ottobre, però, ha menzionato l’aspirazione ad una “riunificazione pacifica”, dando per scontato che avverrà. Ma non ha menzionato né minacciato l’uso della forza militare. Secondo il politologo Walter Russel Mead (il cui editoriale sul Covid in Cina, pubblicato sul Wall Street Journal nel febbraio 2020, aveva provocato l’espulsione dalla Cina di tre giornalisti del quotidiano economico), si tratta di una pausa di riflessione, dettata dalla debolezza economica cinese. La crisi del colosso immobiliare Evergrande, la crisi energetica che impone un razionamento e provoca blackout in tutto il Paese, la ripresa di focolai pandemici in una nazione che aveva dichiarato debellato il Covid già nell’aprile del 2020, sono tutti segnali di forte debolezza. Che impone prudenza. Xi Jinping sa che, in una congiuntura come questa, non può permettersi di avere troppi nemici. Ma, come avverte lo stesso politologo americano, “Questa è una pausa, non è un cambio di direzione”.