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Sogni e matrimonio, cosa ci insegna san Giuseppe

La lettera apostolica Patris Corde, frutto della collaborazione tra il cardinale Piacenza e papa Francesco, usa concetti fondati sulle Scritture ma con un vocabolario attualizzato. San Tommaso spiega perché san Giuseppe ricevesse la rivelazione divina attraverso i sogni e perché quello con Maria fu vero matrimonio. I due sposi castissimi andrebbero invocati insieme perché le unioni irregolari si aprano alla grazia di Dio, regolarizzandosi di fronte a Lui.

Ecclesia 09_06_2021

A seguito della Lettera papale Patris corde dell’8 dicembre 2020 si sono riaccesi i riflettori sulla figura di san Giuseppe cercando di declinarlo sull’attualità. Qui invece - e in qualche altro intervento a seguire - vorrei mettere in luce qualcosa di più tradizionale, di più curioso, forse di più marginale, ma comunque da tenere presente.

LA LETTERA PAPALE “PATRIS CORDE”

Come dal sito vaticano, il venerdì 12 marzo u.s. il Romano Pontefice Francesco, rivolgendosi ai partecipanti a un corso organizzato dalla Penitenzieria Apostolica, ha così esordito: «Il Cardinale - lo ringrazio per le sue parole - ha insistito su san Giuseppe. Per mesi (mi diceva): “Scriva qualcosa su san Giuseppe, scriva qualcosa su san Giuseppe”. E la Lettera su san Giuseppe è opera sua, in grande parte. E così, grazie».

Da parte sua il cardinale in oggetto - Mauro Piacenza - intervistato al riguardo su La Voce alessandrina il 25 marzo u.s., alla domanda se fosse lui l’autore della lettera, ha risposto: «Sì, insomma... in qualche modo. Io ho ricordato al Santo Padre quello che era successo 150 anni fa, mi pareva importante non lasciare in silenzio una data decisamente rilevante. E lui ha subito accolto l’indicazione, dicendomi anche: “Lei potrebbe scriverla”. Mi ha anche raccontato che quando era in Argentina aveva un quaderno in cui aveva steso degli appunti su san Giuseppe per un progetto pastorale. Venuto a Roma, il Santo Padre ha recuperato fra le scartoffie anche quel quaderno (...). Ho consegnato [il testo] dopo qualche mese, e così ci sono in quel testo “cose nuove e cose antiche”. Comunque la Lettera è del Papa!».

Un tempo né un Papa né un Cardinale si sarebbero mai permessi esternazioni del genere su di un documento ufficiale. Per me sono una caduta di stile curiale, però hanno un aspetto positivo: conosciamo le fonti, l’ispirazione e gli autori del documento. Il quale documento cerca di essere il più possibile attuale nel linguaggio e nei riferimenti antropologici usando le categorie dell’accoglienza, del coraggio creativo, della tenerezza ecc., concetti estraibili da avvenimenti narrati dalle Scritture, ma con un vocabolario nostro e che di certo non è il vocabolario che don Mauro Piacenza usava a Genova da giovane prete in tutto ligio al modello dell’arcivescovo card. Giuseppe Siri († 1989).

Infine la Patris corde commemora il CL della solenne dichiarazione di san Giuseppe a patrono della Chiesa Cattolica (Pio IX, l’8 dicembre 1870), nella scia di ravvicinare gli anniversari ogni 100, 50, 25... anni: commemorazioni che si indeboliscono a vicenda, quando non si sovrappongono.

GIUSEPPE, L’UOMO DEI SOGNI

La vocazione di Giuseppe e le decisioni che ebbe a prendere gli furono comunicate da un angelo attraverso un sogno: la soluzione del dubbio su Maria, la fuga in Egitto, il ritorno in Israele (cf. Mt 1,20ss.; 2,13; 2,20.22). Anche se può esserci un rimando a Giuseppe figlio del patriarca Giacobbe, nella cui vicenda i sogni ebbero un ruolo decisivo (cf. Gen 37,5.9ss.; 40,5ss.; 41,1ss), per noi il sogno resta un canale comunicativo poco sicuro e non raccomandabile.

Nel commento al Vangelo di Matteo, san Tommaso d’Aquino offre una spiegazione originale dei sogni di Giuseppe. Il santo dottore osserva che, «come dice l’Apostolo in 1Cor 14,22, “la profezia è per i fedeli, i segni per gli infedeli”. Ora, secondo Nm 12,6, la rivelazione profetica avviene nei sogni: “Se ci sarà tra di voi un profeta del Signore, apparirò a lui in visione o gli parlerò attraverso il sogno”. Così Giuseppe, giusto e fedele, ricevette quella forma di rivelazione propria dei credenti» (n. 123), cioè, non ebbe bisogno di segni “forti”, ma essendo forte la sua fede, gli bastarono i segni flebili di un sogno. E che la fede di Giuseppe fosse forte, lo si tocca con mano dopo i sogni, quando, appena sveglio, «fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore» (Mt 1,24; cf 2,14.21-22).

Commentando il sogno con l’ordine di fuggire in Egitto, san Tommaso offre un altro spunto: l’angelo appare in sogno «perché in quel momento gli uomini cessano di compiere atti esteriori e agli uomini avviene la rivelazione per mezzo degli angeli» (n. 207), cioè nel sogno non è attiva l’organizzazione della vita e le elaborazioni intellettuali che potrebbero frapporsi alla rivelazione divina. Tra l’altro, la scelta mariana di apparire e consegnare messaggi a bambini è stata spiegata quasi allo stesso modo dall’allora cardinale Ratzinger circa Fatima: «L’anima è ancora poco alterata, la sua capacità interiore di percezione è ancora poco deteriorata» (EV 19/1009).

Si potrebbe obiettare che a Maria l’Annunciazione avvenne da sveglia - e san Tommaso vi trova delle buone ragioni! - e che lo stato onirico non è così innocente come si supponeva. Credo tuttavia che gli spunti di san Tommaso si rivelino utili ancora oggi per cogliere i lati positivi della rivelazione onirica evitando di liquidarla subito con un: “Non diamo retta ai sogni!”.

GIUSEPPE, LO SPOSO

«Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù, chiamato Cristo»: è la prima citazione di Giuseppe e l’evangelista lo chiama sposo (Mt 1,16 e v. 19) con il termine greco “anēr”, in latino “vir”, cioè “uomo”, che, contrapposto a moglie, significa marito/sposo, come ancora si usa in certi dialetti nei quali la donna nomina il marito come “il mio uomo”.

Anche la Patris corde inizia ammettendo che «la grandezza di san Giuseppe consiste nel fatto che egli fu lo sposo di Maria e il padre di Gesù. In quanto tale, “si pose al servizio dell’intero disegno salvifico”, come afferma san Giovanni Crisostomo» (n. 1), però l’intero documento, come dal titolo, è più sensibile a Giuseppe padre e un po’ meno a Giuseppe sposo.

È invece il caso di una riflessione integrativa su Giuseppe sposo rispondendo alla domanda se tra Maria e Giuseppe ci fu un vero matrimonio. Sì, spiega san Tommaso. Il matrimonio fu perfetto nella sua natura, cioè nella «indivisa congiunzione degli animi, per cui ognuno dei coniugi conserva la fedeltà all’altro». Non ci fu l’azione carnale per la generazione della prole, ma ci fu «quella perfezione che è relativa all’educazione della prole (...) a opera dell’uomo e della donna» (III, q 29, a 2). In questo senso Giuseppe fu “padre” di Gesù, come i Giudei rinfacciarono (cf. Gv 6,41-42) poiché «tenevano in considerazione la sola generazione carnale di Cristo», oppure come Filippo disse a Natanaele: «Abbiamo trovato (...) Gesù, il figlio di Giuseppe» (Gv 1,45) e san Tommaso osserva che non c’è da stupirsene, «dal momento che anche la madre, che pure era cosciente del mistero dell’Incarnazione, lo chiama così in Lc 2,48 dicendo “Tuo padre e io ti cercavamo”» (Commento al Vangelo di Giovanni, nn. 931, 317).

Il matrimonio fu perfetto anche perché realizzò i tre beni che lo caratterizzano: «Prole, fedeltà e sacramento. La prole, la riconosciamo nello stesso Signore Gesù; la fedeltà, nel fatto che non ci fu adulterio; il sacramento, perché non ci fu divorzio. Soltanto l’atto coniugale vi fu assente». Così sant’Agostino in De Nuptiis et Concupiscentia I,11-12, citato da san Tommaso, il quale però saggiamente tronca quanto viene subito dopo e cioè che l’atto coniugale «nella carne di peccato non poteva essere compiuto senza quella concupiscenza della carne che viene dal peccato»: concupiscenza di chi? di Giuseppe? Ma via, non diciamo sciocchezze!

Ciò precisato, per la nostra mentalità l’ammirazione a Giuseppe sposo e a quel matrimonio non può che essere mescolata e sopraffatta da un senso di estraniamento verso questa coppia e verso il figlio stesso, perché in famiglia... manca del tutto l’attività sessuale e c’è un’abbondanza di verginità che ci sconcerta. Può essere un modello per l’oggi o è meglio non parlarne?

San Gerolamo († 420) ne era entusiasta e legava la castità di Giuseppe alla relazione con Maria: «Tu (Elvidio) dici che Maria dopo il parto non rimase vergine. Io invece dico addirittura di più: dico che lo stesso Giuseppe fu vergine attraverso Maria perché da un verginale matrimonio nascesse un figlio (Gesù) a sua volta vergine» (Contro Elvidio 19: PL 23,203).

Rileggiamo tutto dal punto di vista di Giuseppe e della situazione di oggi. Certo il matrimonio comporta l’attività sessuale, che è un dono di Dio per i figli che ne derivano e per gli sposi: la primordiale benedizione di fecondità, ripetuta ad esempio nella benedizione di Rebecca e di Rut (cf. Gen 1,28; 24,60; Rt 4,11), resta valida anche nel NT, dove la donna «sarà salvata partorendo figli» (1Tm 2,15), dove le vedove giovani devono risposarsi (cf. 1Tm 5,11) e dove i coniugi non devono rifiutarsi l’uno all’altro «se non per comune accordo e temporaneamente, per dedicarvi alla preghiera, poi tornate insieme perché Satana non vi tenti» (1Cor 7,5).

Certo, la condizione di Maria e Giuseppe fu unica, come unica fu l’Incarnazione. Se il Figlio di Dio venne perché i credenti diventassero figli di Dio «né da volere di carne né da volere di uomo» (Gv 1,13), lo stesso Figlio dovette incarnarsi per puro dono di Dio e non per volontà umana e ciò illumina la castità assoluta e unica della Sacra Famiglia, modello di ammirazione nella fede ma non di esatta imitazione nella pratica della vita coniugale.

Ma è altrettanto certo che Dio non può aver proposto a Maria e soprattutto a Giuseppe qualcosa di disumano. E perché “soprattutto a Giuseppe”? Perché, come insegna l’esperienza, è noto che l’impulso sessuale è più forte nell’uomo che nella donna e oggi un certo numero di coppie irregolari praticano un’attività sessuale oggettivamente peccaminosa per insistenza di lui più che di lei; lei che di fronte alla dottrina tradizionale della Chiesa sospira: “Io sarei anche disposta a farne a meno, ma il mio compagno...”.

Ecco, bisognerebbe insegnare a “il mio compagno” che la castità di Giuseppe, con la grazia di Dio, fu “umanamente possibile”, come oggi è possibile laddove è richiesta. Ma, come si esprimeva nel 2014 un gruppo di domenicani degli Usa negli interventi preparatori a uno dei Sinodi sfociati nell’Amoris laetitia, «il cuore delle recenti proposte è una sfiducia sulla castità (...). L’assunto delle attuali proposte è che tale castità sia impossibile per i divorziati (...). Forse che ciò non evidenzia una velata disperazione nei confronti della castità e del potere della grazia di sconfiggere il peccato ed il vizio?».

Fior di teologi - anche di vescovi e di preti? - la pensano così. E invece una provvidenziale attualizzazione di Giuseppe sposo sarebbe quella di invocarlo oggi insieme alla sua sposa Maria perché tante unioni irregolari, toccate dalla grazia, scoprano e sperimentino che regolarizzarsi di fronte a Dio con l’astensione dai rapporti sessuali è possibile e non è disumano perché disumano non fu san Giuseppe, vero sposo di Maria. Che se poi non si ha il coraggio - o si ha vergogna - di dire questo, per lo meno non si citi la Sacra Famiglia alla fine di certi discorsi.