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Scioperi selvaggi, l'opposizione la fanno i sindacati

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Il centrosinistra è troppo diviso e allora ci pensano le agitazioni sindacali ad andare contro il governo, paralizzando il Paese e penalizzando i cittadini. È la deriva di una forma di tutela dei lavoratori strumentalizzata da minoranze politicizzate. 

Politica 09_09_2025
MARCO CREMONESI - IMAGOECONOMICA

Finita l’estate, riposte le valigie e chiusi gli ombrelloni, per milioni di italiani non è tempo solo di tornare alla routine lavorativa o scolastica. A settembre, puntuale come ogni anno, torna anche la stagione degli scioperi. Una vera e propria ondata che sta colpendo il Paese con la consueta viralità. Secondo quanto riportato nei giorni scorsi, sono già 66 gli scioperi indetti per il mese in corso. Un numero impressionante, che la dice lunga sul livello di conflittualità che attraversa i settori pubblici e privati italiani. Ma, soprattutto, una cifra che fa riflettere sulla facilità con cui, nel nostro Paese, si può scegliere di fermare interi comparti fondamentali, con pesanti ricadute sui cittadini e sul livello dei servizi.

Nessun settore sembra essere risparmiato: dai trasporti pubblici e ferroviari alla sanità, dalla scuola alle forze dell’ordine. Una serie di proteste che, anche se diversificate nei contenuti e negli obiettivi, finiscono per convergere tutte nello stesso punto, ovvero creare un disagio quotidiano in ampie fasce di popolazione. Il calendario è fitto, dal personale delle ferrovie che si ferma, lasciando pendolari e studenti senza mezzi per raggiungere scuole e uffici ai medici e agli infermieri che incrociano le braccia, rallentando visite, prestazioni e interventi già gravati dalle lunghe liste d’attesa. Senza dimenticare gli scioperi negli aeroporti, che possono cancellare o ritardare voli in un momento in cui molte attività economiche si rimettono in moto dopo la pausa estiva.

Ovviamente non si tratta di rivendicazioni del tutto infondate. Tuttavia, è altrettanto evidente che la concentrazione eccessiva di scioperi nello stesso periodo finisce per trasformare uno strumento democratico nella causa di una paralisi collettiva. La domanda da porsi è se lo sciopero serva ancora a qualcosa, visto e considerato che viene proclamato con estrema disinvoltura. In una democrazia il diritto allo sciopero deve essere garantito, ma, come ogni diritto, deve convivere con altri diritti altrettanto fondamentali, a cominciare da quelli alla mobilità, alla salute, all’istruzione. Non è accettabile che intere categorie, spesso anche in modo coordinato e sovrapposto, decidano di bloccare il Paese senza considerare l’impatto sociale ed economico delle loro azioni.

L’impressione, purtroppo, è che lo sciopero sia diventato uno strumento politico più che sindacale. Si sciopera contro il governo, contro una riforma, contro un provvedimento, con modalità che spesso sembrano più dettate dal movente politico che non da reali esigenze di miglioramento delle condizioni di lavoro. Il rischio è quello di un abuso sistematico dello strumento della protesta, con inevitabile svuotamento della sua efficacia.
Coloro che protestano dovrebbero anche interrogarsi sull’impatto che queste azioni hanno sulla percezione pubblica del lavoro e dei servizi. Quando un pendolare resta a piedi per l’ennesimo sciopero dei trasporti, quando un paziente vede rinviata una visita urgente, quando una madre deve prendere un giorno di ferie per tenere a casa il figlio perché gli insegnanti protestano, la rabbia cresce; e con essa, anche il distacco dei cittadini dai lavoratori.

A risentirne non sono solo i cittadini ma anche l’intero sistema economico italiano, già fragile di natura. In un mondo come quello attuale, in cui rapidità, efficienza e affidabilità sono i requisiti fondamentali per attrarre investimenti e competere sui mercati, l’instabilità generata dagli scioperi costituisce un enorme freno. Un Paese che ogni mese può bloccarsi per decine di agitazioni sindacali non viene percepito come affidabile. Le aziende vengono colpite, i trasporti delle merci rallentano, il turismo si spaventa e arretra. E, nel lungo periodo, la somma di tutti questi danni più piccoli rischia di diventare un problema del tutto insostenibile.

È tempo di chiedersi se sia davvero accettabile che 66 scioperi possano essere concentrati nello stesso mese, con effetti negativi sull’intero Paese. Probabilmente è il momento di rivedere i meccanismi che regolano le agitazioni sindacali, senza per questo comprimere i diritti dei lavoratori. Una maggiore regolamentazione non significa necessariamente repressione. Significa, piuttosto, trovare un corretto equilibrio tra il diritto di protestare e quello dei cittadini di vivere una vita normale. Significa prevedere periodi temporali differenti per scioperi di settori diversi, introdurre obblighi di mediazione più stringenti prima della proclamazione di uno sciopero, garantire livelli minimi di servizio realmente efficaci.

Non possiamo più considerare normale che a settembre il ritorno alla vita attiva sia accompagnato da un calendario fitto di scioperi. Il diritto alla protesta va tutelato ma non può diventare un motivo per ostacolare sistematicamente la vita collettiva. Ogni sciopero ha un costo, sia economico che sociale e civile. Quando il numero degli scioperi raggiunge livelli come quelli attuali, è evidente che qualcosa deve essere rivisto. Dietro ogni treno o metropolitana che non parte, dietro ogni lezione che salta, dietro ogni intervento chirurgico rinviato non c’è solo una rivendicazione. Ci sono soprattutto milioni di cittadini che subiscono e non hanno strumenti per far valere i propri sacrosanti diritti. A dettare legge sono spesso minoranze politicizzate che, viste le permanenti divisioni nel centrosinistra, rappresentano (insieme con settori ideologizzati della magistratura) l’unica vera opposizione politica al governo Meloni.



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