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MULTICULTURALISMO

Saman e le responsabilità di "noi femministe"

La riflessione di una femminista che sente il rimorso per il silenzio su Saman evita di fare i conti con l'ideologia che è la vera responsabile della lunga catena di donne morte: il multiculturalismo, tipico della sinistra del dopo Guerra Fredda. 

Attualità 08_06_2021
Saman Abbas

Il caso di Saman Abbas sembra aver scosso qualche coscienza anche in una certa sinistra. Tuttavia, il “razzismo sottile” evocato in un’intervista sull’Huffington Post da un’autorevole esponente del femminismo italiano, è nella sostanza più “auto-assolutorio” che “auto-critico”, poiché devia (abilmente) l’attenzione su una problematica per la quale è solitamente la “destra” ad essere sul banco degli imputati, così da evitare che a processo ci finisca la “sinistra”. Alla creazione in Italia delle condizioni socio-culturali per il ripetersi di tragedie come quella che ha colpito la 18enne di origine pakistana, ha infatti contribuito enormemente l’impostazione ideologica “multi-culti” che è tra le bandiere principali della sinistra post-Guerra Fredda. 

L’elenco con i nomi delle giovani che hanno preceduto Saman è lungo. Comprende Rachida Radi, Sanaa Dafani, Hina Saleem, Souad Alloumi, solo per citare i casi delle brutali uccisioni che hanno avuto maggiore risalto mediatico. Ma il “rimorso” postumo e posticcio sfoggiato nell’intervista dovrebbe riguardare anche tutte le donne, giovani e meno giovani, che si trovano in questo preciso momento in uno stato di sostanziale “reclusione”, in mura domestiche diventate una prigione nella quale non hanno il diritto di studiare, imparare la lingua italiana, socializzare e avere una vita propria, insomma d’integrarsi, scegliendo in maniera libera con chi eventualmente stabilire una relazione sentimentale o di amicizia. E va ricordato che la condanna dei matrimoni imposti infierisce spesso persino su bambine neppure entrate nella fase dell’adolescenza, come Dalal Nabih di Milano.

Chi e cosa ha permesso che simili tragedie potessero verificarsi in territorio italiano, nella culla della civiltà e del diritto? Sotto inchiesta andrebbe appunto messo il cosiddetto “multiculturalismo”, benevolo verso tutto ciò che è “altro”, non importa cosa, basta che sia “diverso”. Di qui, il “lasciar fare” a beneficio di mentalità e modalità come quelle di cui Saman è solo l’ultima vittima, benché siano in aperto contrasto con la legislazione italiana e con i più basilari diritti umani e civili universalmente riconosciuti. Una manna per l’Islamismo radicale che continua a imperversare in altre zone del mondo e che così si è sentito autorizzato a procedere impunemente nel coltivare anche in Italia una concezione della donna di stampo ultra-patriarcale, che ne esalta la sottomissione e la subalternità come valori nientemeno che religiosi.

Non è questa materia per le battaglie di “noi femministe”, espressione utilizzata orgogliosamente nell’intervista sull’Huffington Post? Sembra di no e i fatti parlano chiaro: il “femminismo” la sinistra lo ha riservato finora pressoché esclusivamente al “maschio” italiano (e occidentale, in generale), mentre neppure un moto di sdegno nei confronti dell’obbligo del “velo”, indumento che l’Islamismo radicale continua a strumentalizzare politicamente secondo le sue logiche perverse e che, nella stragrande maggioranza dei casi, nulla ha a che fare con la “libera scelta”. Guarda caso, nell’intervista non se ne fa alcun cenno.

Dopo tanto silenzio e indifferenza, a suggerire il “mea culpa” è stato forse il timore che il “velo del multiculturalismo” venga definitivamente squarciato, mettendo così le “noi femministe” a nudo, con tutte le loro responsabilità? Se si vogliono comprendere le ragioni dell’assassinio di Saman e delle prossime vittime del fondamentalismo, meglio indurre a indagare altrove, al di fuori della “sinistra”? Difficile credere che si tratti di un metodo “inconsapevole”. Tanto più che lo stesso giudice conferisce alla scomparsa e all'omicidio di Saman da parte dello zio Danish Hasnain un movente etico e religioso.

Per quanto si cerchi di allontanare da sé lo spettro delle proprie colpe “ideologiche” e “intellettuali” (o pseudo tali), l’Islamismo radicale ha già dimostrato di essere un “boomerang” per il femminismo, come insegna il caso dell’Iran, dove oggi è Nasrin Sotoudeh, l’avvocatessa per i diritti umani condannata a 38 anni di carcere e a 148 frustrate per la sua opposizione al velo obbligatorio, a pagare insieme a tante altre attiviste come lei e a tutte le donne iraniane per l’appoggio offerto più di 40 anni fa alla “rivoluzione” dell’ayatollah Khomeini dalla gran parte della sinistra dell’epoca, iraniana e internazionale.

Nel bene o nel male, purché se ne parli, e se l’intervista sull’Huffington Post è servita finalmente ad aprire una riflessione anche a sinistra sulla questione dell’islamismo radicale e delle donne, va accolta positivamente, con l’auspicio che il dibattito coinvolga attivamente il livello politico. Perché impedire che dopo Saman l’elenco delle giovani vite spezzate si arricchisca di nuovi nomi, non è una missione impossibile.