Pontida, una Lega divisa tra federalisti e nazionalisti
Ascolta la versione audio dell'articolo
L’ormai tradizionale evento leghista ha confermato le tensioni interne al Carroccio: da un lato la nostalgia federalista e nordista, dall’altro la corrente nazionalista con Vannacci che reclama spazio. Salvini cerca di fare da mediatore.

Il trentottesimo raduno della Lega a Pontida è giunto alla sua conclusione su note che delineano con chiarezza le tensioni interne che attraversano oggi il Carroccio: da un lato la nostalgia federalista, l’istanza di difesa forte del Nord, l’urgenza che i ceti produttivi siano rappresentati con concretezza; dall’altro una deriva nazionalista, una retorica sovranista più sfacciata che si confronta sulla linea dura di Roberto Vannacci – l’ex generale ora vicesegretario – che reclama spazio, visibilità, riconoscimento, e che già guarda alle sfide elettorali amministrative e politiche. È emersa anche la consapevolezza che la concorrenza all’interno del centrodestra, soprattutto con Fratelli d’Italia, diventa sempre più accesa, specie nelle regioni chiave come il Veneto. Un quadro di conflitto: non più soltanto Nord contro Roma, ma Nord vs Nord all’interno della Lega, tra chi vorrebbe tornare alle origini e chi invece spinge per una Lega che sia partito nazionale tout court.
Matteo Salvini ha formalmente chiuso il raduno con un discorso in cui si rifà al mito, al simbolo, all’eredità: «Non manderemo mai nostri figli e nipoti a combattere in Ucraina, non siamo in guerra contro nessuno» ha dichiarato, affermando che la Lega non risponde all’odio con altro odio ma semmai con «pietà umana». Ha citato Bossi, Maroni, Berlusconi, sottolineando come la Lega sia, oggi come trent’anni fa, vista come «un imprevisto da cancellare» da parte dei poteri forti. Ha annunciato una manifestazione per il 14 febbraio «in difesa dell’Occidente», insieme a famiglie e amici, diritti, confini, libertà. Quanto al Veneto, Salvini ha indicato Alberto Stefani come il candidato che la Lega auspica per la carica di governatore, aggiungendo: «Non imponiamo nulla a nessuno, ma spero che il prossimo anno vedremo il giovane Stefani con la maglietta del Leone di San Marco a Pontida da governatore del Veneto».
Roberto Vannacci ha tenuto un discorso incisivo e provocatorio sotto molti aspetti. Ha evocato Charlie Kirk come modello («dobbiamo essere gli eredi di Charlie Kirk»), ha parlato di invasione da parte dello straniero che «stupra, ruba e rapina», ha attaccato l’Unione Europea, i giudici europei e le leggi che – a suo dire – nulla hanno a che fare con la sovranità popolare o nazionale. Ha usato una retorica nazionalista e identitaria, dicendo che la società «meticcia» e l’islamizzazione sono minacce che vanno combattute.
Il governatore del Veneto, Luca Zaia, dal canto suo, ha ribadito la centralità dell’autonomia: «A questo governo chiediamo un'autonomia vera, che non fa male al Sud». Ha affermato che non è lesa maestà chiedere che il candidato governatore del Veneto sia leghista, sostenendo che la Lega in quella regione debba mantenere il proprio controllo. Ha detto anche che «Vannacci può essere un valore se fa il leghista», sottolineando che nella Lega ci sono molte persone valide, che i segretari (e i leader) si scelgono tramite congressi che coinvolgono il popolo del partito.
È in questo contesto che emerge la spaccatura interna: i duri e puri che provengono dalla tradizione “nordista”, che ancora insistono sull’autonomia, sul federalismo, sulla rivoluzione fiscale, sulla tutela dei ceti produttivi del Nord, contro quello che considerano un abbandono o una sottovalutazione di questi stessi temi in favore di slogan nazionalisti che sanno parlare al Paese intero, ma rischiano di allontanare la base originaria. Da un lato, chi rimpiange i tempi dell’Umberto Bossi che accumulava consensi nel Nord puntando su tema fiscale, identitario, padano; dall’altro chi crede che la Lega debba essere un partito nazionale, con una piattaforma sovranista forte su migrazione, sicurezza, identità culturale, confini, Occidente.
Le richieste esplicite da parte della “falange Nord” sono state: maggiore rappresentanza per i territori settentrionali, garanzie che il candidato in Veneto sia leghista (Stefani), che le autonomie vengano difese come legge dello Stato (senza fare passi indietro), tutela dei simboli locali e radici storiche del partito (le voci su Stefani con la maglietta del Leone di San Marco non sono casuali).
Salvini mantiene la posizione di mediatore interno: non nega la base federalista, parla di Nord e di autonomia, ma non vuole che il partito sia frammentato, vuole invece che questa diversità interna diventi un’arma: lo slogan “Liberi e forti”, “Senza paura”, le citazioni di Bossi e Maroni, l’omaggio a Charlie Kirk, e la promessa del “noi soli contro tutti” sono evidenti segni che Salvini punta a unire le due anime sotto la bandiera di un sovranismo forte, ma senza dichiararsi né esclusivamente nazionalista né totalmente nordista. È questo equilibrio, però, che appare ogni giorno più fragile.
La competizione con gli alleati è un altro elemento che introduce ulteriore tensione: Forza Italia viene accusata di atteggiamenti “ondivaghi”, oscillanti; Calenda pure è criticato perché non si schiera con il centrodestra. Fratelli d’Italia soprattutto è percepito come rivale diretto per l’eredità culturale: la Lega vuole essere quella che incarna il Nord ma anche l’Italia intera, mentre FdI pretende la leadership della destra nazionalista. Nel Veneto le regionali saranno un test cruciale: Zaia lo ha detto esplicitamente, il ruolo del candidato contabile con continuità (forte identità leghista) è centrale. Se il successore di Zaia non fosse leghista, «sarebbe un problema», è stata la frase con cui Zaia ha ribadito che il partito e la base veneta non accetterebbero una scelta diversa.
Ma questo scontro non è solo identitario, è anche materiale: chi rappresenta i ceti produttivi del Nord (piccole imprese, artigiani, agricoltori) chiede politiche concrete: meno burocrazia locale, fiscalità amica, interventi per il territorio, difesa del made in Italy. E teme che l’ansia di parlare a livello nazionale e internazionale (confini, migrazione, Occidente) finisca per sottrarre attenzione a ciò che accade nei comuni, nelle province, nei poli industriali del Nord. Bastano segnali come la richiesta di “autonomia vera” da parte di Zaia per capire che l’ala tradizionale non intende mollare la presa su questi temi.
Il futuro della Lega si gioca su questa sfida interna: riuscire a convogliare le richieste del Nord, essere credibile su autonomia, federalismo, difesa dei territori e dei ceti produttivi, senza rinunciare alla nuova dimensione nazionale che Vannacci e la sua ala rappresentano, né al carisma identitario che Salvini persegue. Se Salvini e i vertici riusciranno a farlo, la Lega potrà rafforzarsi; se non ci riusciranno, la spaccatura rischia di diventare frattura. La Lega, alla fine del raduno, appare un partito in cammino, con un piede nel passato federalista, l’altro proiettato nel nazionalismo identitario. E non è affatto scontato che i due passi proseguano in armonia.