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CRISI DI UN CONTINENTE

L’Europa, l’anello debole del nuovo sistema multipolare

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Il dirigismo e l’ambientalismo rendono l’UE sempre meno competitiva, in un quadro economico-militare sempre più multipolare. Intanto i rapporti tra Europa e USA sono altalenanti. Urge un’azione diplomatica di ampio respiro, ma Biden e von der Leyen la ostacolano.
- I russi vincono e offrono negoziati alle loro condizioni, di Gianandrea Gaiani

Attualità 20_02_2024 Español
Joe Biden e Ursula von der Leyen (25 marzo 2022, foto ImagoEconomica)

Il continente europeo è stato investito negli ultimi anni da una serie di fattori di crisi politica ed economica intrecciati tra loro, tra i quali alcuni di origine endogena, altri frutto di un contesto più ampio.

Tra i primi, vanno annoverate la torsione dirigista delle classi dirigenti dell’Unione europea e l'ossessione ideologica ambientalista, che, combinate, stanno rendendo sempre meno competitivo l'apparato produttivo e l'approvvigionamento energetico dei Paesi aderenti, e sempre più dipendenti le loro società da importazioni più costose e in prospettiva costantemente a rischio.

I secondi sono riassumibili in primo luogo nelle conseguenze del mutamento strutturale degli equilibri di potenza mondiali originati dalla globalizzazione, con il passaggio dal tendenziale unipolarismo imperniato sull'egemonia della superpotenza statunitense a un multipolarismo magmatico, instabile, in turbolenta evoluzione, tendente a trasformarsi pericolosamente in una contrapposizione tra Occidente atlantista e “resto del mondo”.

In tale nuovo assetto, l'Europa rischia seriamente – tanto più in quanto indebolita e dipendente sul piano economico – di trovarsi nella classica, manzoniana posizione del “vaso di coccio” tra i “vasi di ferro”. Essa infatti viene sottoposta a crescente pressione da Est da parte delle due potenze – Russia e Cina – che aspirano a un'influenza eurasiatica: la prima come parte della strategia neo-imperialista di Putin che mira a frenare, se non a invertire, l'allargamento della Nato sulle nazioni ex sovietizzate, sfociata nel conflitto russo-ucraino e in una sorta di rinnovata “cortina di ferro”; la seconda come conseguenza delle mire da superpotenza globale originate dalla crescita impetuosa dell'ultimo trentennio.

Dall'altro lato, il Vecchio Continente vive una stagione di rapporti controversi con l'alleato statunitense: per un verso si ricompatta a esso in funzione antirussa, per l'altro deve fare i conti con l'esaurimento dell'atlantismo tradizionale, e con la crescente propensione americana al disimpegno rispetto alla funzione di “protettore” militare degli europei, e all'esortazione agli alleati a rendersi più autosufficienti. Una tendenza espressa esplicitamente, e persino brutalmente, da Donald Trump, ma evidente anche nell'amministrazione Biden, che prima ha usato spregiudicatamente la questione ucraina per costringere gli europei – la Germania in primo luogo – a tagliare i ponti con Russia e Cina rendendosi più dipendenti dagli Stati Uniti; e ora, ottenuto sostanzialmente lo scopo, e guardando all'opinione pubblica interna in vista delle prossime elezioni, mostra chiaramente di voler ridurre il suo impegno militare ed economico a sostegno di Volodymyr Zelensky, e di lasciare la “patata bollente” ucraina sempre più nelle mani degli alleati al di qua dell'Atlantico. Sui quali, non a caso, gravano interamente da ultimo le forniture militari ed economiche a Kiev, mentre al Congresso esse rimangono congelate. Insomma, comunque vadano le prossime elezioni presidenziali a Washington, è certo che gli europei dovranno aumentare le proprie spese per la difesa, approfondendo deficit e debiti pubblici, e aumentando ulteriormente la pressione fiscale in uno scenario di crescita debole, e di insicurezza crescente.

Ne derivano, dunque, tra i membri dell’Ue un quadro generale di nervosismo, rispecchiato in questi giorni dal teso confronto transatlantico nella Conferenza di Monaco di Baviera sulla sicurezza, e vari tentativi di adattarsi alla nuova situazione, rimescolando le pedine. Il più rilevante tra questi ultimi viene, significativamente, proprio dalla Germania, cioè dal Paese che sta più soffrendo le conseguenze economiche della contrapposizione con Mosca. L'annuncio, da parte di Olaf Scholz, dell'accordo bilaterale con l'Ucraina per la fornitura, da parte tedesca, di artiglieria e missili, e dall'altro lato la proposta del ministro della difesa tedesco Christian Lindner di costituire uno scudo nucleare europeo, manifestano la chiara intenzione di Berlino di uscire dall'angolo e di tornare a svolgere un ruolo da protagonista nell'Unione nel nuovo contesto che sta maturando: da ponte verso la Russia a punta avanzata nello schieramento occidentale nella nuova fase di contrapposizione, ma riconquistando, in cambio, la leadership del continente.

Tale prospettiva – sottolineata dall'allarme enfatizzato proprio dai tedeschi sul possibile imminente sviluppo di un'arma nucleare spaziale da parte di Mosca, e dal piglio bellicoso costantemente alimentato nei confronti di Putin da Ursula von der Leyen – sembra indicare una precisa strategia al tempo stesso politica ed economica da parte tedesca, sintetizzabile nel tentativo di sottrarre l'Ue al declino indotto dalla “riconversione ecologica” investendo in primo luogo sull'industria bellica.

Una strategia che però rassomiglia a un cane che si morde la coda: come può infatti l'industria degli armamenti europea essere competitiva sul piano globale, e assicurare capacità di difesa autonome, se non autosufficienti, al continente, in un quadro di deindustrializzazione e crescente affanno nelle forniture energetiche, nelle catene di approvvigionamento, nel mercato delle materie prime? Affinché non si tratti di pura propaganda, un simile progetto dovrebbe richiedere una inversione a U di tutte le recenti, dissennate politiche di abbandono delle fonti energetiche fossili, di blocco dell'energia nucleare, di “punizione” delle emissioni di CO2 perseguite dall'Unione.

Ma anche ammesso che un tale progetto abbia successo, esso comporterebbe una conseguenza assai preoccupante nel medio periodo: un'Europa divenuta in primo luogo esportatrice di armamenti fatalmente alimenterebbe, cercando acquirenti, le tensioni e i conflitti già attivi o latenti nel contesto mediorientale, asiatico e africano. Determinando così un effetto boomerang: per rafforzare la propria sicurezza, essa si troverebbe sempre più al crocevia tra crisi militari e umanitarie, essendo costitutivamente impossibilitata a gestirle attraverso un'efficace politica estera comune, e riportando così alla luce divisioni strategiche tra i suoi membri che nella prospettiva del “vecchio” atlantismo sembravano superate.

Uno scenario poco rassicurante, al quale sarebbe possibile sfuggire soltanto attraverso un'iniziativa diplomatica di ampio respiro per un nuovo sistema di sicurezza europeo, e in prospettiva euro-asiatico-africano. Le condizioni per il quale tuttavia sono state sistematicamente demolite, negli ultimi anni, proprio dalla politica di Biden e dell'Ue a guida von der Leyen.



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