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medio oriente

La "nuova Siria" islamista è un incubo per i cristiani

L'attentato di domenica in una chiesa ortodossa non è il primo rivendicato da formazioni jihadiste che proliferano in una situazione fuori controllo. Ma nonostante le ambiguità il "governo di transizione" continua a godere del sostegno internazionale.

Esteri 25_06_2025
foto di Elisa Gestri

Il ritorno dello Stato Islamico, o chi per lui, in Siria è ormai acclarato e innegabile. È dal dicembre scorso, quando Hayat Tahrir al Sham ha preso il potere nel Paese, che si assiste ad una fioritura di formazioni jihadiste che in parte coincidono con HTS, in parte ne sono alleate, in parte rivali. Alcune di esse provengono dall'Isis, altre ne sono sorelle, altre ancora hanno un passato in Al Nusra, l'Isis siriano, o in Al Qaeda.

Nello scorso mese l'Isis ha rivendicato con la propria sigla due attentati in Siria, uno nel deserto del sud e uno nel governatorato di Suwayda. Il primo ha avuto come oggetto una pattuglia del Free Syrian Army (FSA), la milizia composta in origine da ribelli al regime di Assad e sostenuta dagli USA, di stanza presso la base di al Tanf vicino ai confini giordano e iraqeno. Dalla caduta del regime di Assad queste sono le prime operazioni rivendicate apertamente dall'Isis, o da chiunque si celi adesso dietro la sigla. Frattanto l'aleppino Dujana al Jubouri, già comandante di al Nusra, nella cui formazione ha ricoperto posizioni di leadership fino al 2014 quando si è unito allo Stato Islamico, è stato nominato nuovo governatore di Aleppo. È stato lo stesso Isis a comunicarne la notizia.

L'attentato suicida alla chiesa greco-ortodossa di Sant'Elia, che domenica scorsa alle 18 e 15, un quarto d'ora dopo l'inizio della Messa, ha provocato 27 morti e 63 feriti a Dwela, Damasco, è stato in un primo momento attribuito all'Isis (ma a quanto pare si è tattato di una false flag), poi è stato rivendicato da una nuova formazione denominatasi Saraya Ansar al-Sunna (Brigata di supporto alla Sunna).

I tre attentatori – secondo fonti locali due foreign fighter uzbeki e un "facilitatore" siriano di HTS – non si trovavano lì per caso. Erano già noti nel quartiere, dove avevano avuto più di uno scontro con i residenti che se ne erano lamentati con le autorità. Il kamikaze Muhammad Zayn al Abidin abu Uthman, si legge nel comunicato diffuso sui social da Saraya Ansar al-Sunna, è l'autore di una «operazione di martirio» risultata nella morte di «dozzine di politeisti». Una operazione simile, conclude il comunicato, «sarà ripetuta presto a Beirut».

Chi si nasconde dietro questa nuova formazione che tanto nuova non è? In un'illuminante intervista del maggio scorso al quotidiano libanese An Nahar, tale Abu al-Fath al-Shami, capo della "Divisione Sharia" del gruppo, ha dichiarato che l'organizzazione, fondata in segreto a Idlib, raccoglie fuoriusciti da HTS ed ex miliziani dell'Isis e considera al Charaa «un tiranno inaffidabile e apostata», anche se non ha nelle sue priorità l'opposizione al governo siriano. Per quanto riguarda l'Isis Saraya Ansar al-Sunna non ne riconosce l'autorità, ma, ha aggiunto al Shami, «chiunque concordi con noi sulla jihad è nostro fratello». Al momento l'organizzazione è concentrata nell'«attaccare alawiti, drusi, sciiti e le milizie FDS (Forze democratiche siriane curde) nel nordest della Siria». Evidentemente, se la rivendicazione della milizia è attendibile, ce n'è anche per i cristiani.

Tutte le evidenze portano a ritenere che HTS non riesca, o piuttosto non voglia, tenere a freno i suoi affiliati jihadisti a qualunque formazione appartengano, nella fattispecie i foreign fighter radicalizzati ora integrati nei suoi ranghi che si macchiano ogni giorno di crimini efferati, in particolare contro le minoranze colpevoli di takfir, apostasia. Dall'inizio dell'anno migliaia di persone sono state uccise in Siria senza distinzione di sesso o età, solo in base all'appartenenza religiosa.

Nonostante la situazione in Siria sia evidentemente fuori controllo e le violazioni dei diritti umani abbiano superato di molto il livello di guardia, l'impunità che la comunità internazionale accorda al governo di Ahmed al Charaa è possibile grazie al supporto degli USA, della Turchia, del Qatar e della UE. Il 23 giugno, all'indomani dell'attentato alla chiesa di Sant'Elia, il Consiglio Europeo ha approvato le Conclusioni sulla Siria riaffermando l'impegno europeo a sostenere il popolo siriano e a supportare il «governo di transizione» riconoscendone «l'impegno a costruire una nuova Siria basata sulla riconciliazione, sul rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali per tutti i siriani senza distinzione, sulla salvaguardia delle diversità esistenti nel Paese», si legge nel comunicato stampa diffuso in giornata. Le ultime parole suonano amaramente ironiche se si pensa ai familiari delle vittime di Dwela – uomini, donne e bambini – che hanno perso i loro cari in modo così incredibilmente brutale e cruento.

Più ambiguo è il rapporto tra il governo di Al Charaa e Israele. Lo Stato ebraico e la Siria sono ufficialmente in guerra dal 1948 e Israele continua a bombardare quasi ogni giorno la Siria, segnatamente, ma non solo, il Golan nei pressi della città di Quneitra e il sud nella regione di Daraa. Da notare che gli attacchi alla Siria (oltre che al Sud del Libano e ai civili gazawi) sono proseguiti anche dopo l'apertura da parte di Israele del "fronte iraniano". Da quando ha preso il potere, al Charaa ha sempre dichiarato che la Siria non desidera conflitti con il potente vicino, chiedendo senza troppa convinzione alla comunità internazionale di fermare gli attacchi israeliani.

Durante una visita a Damasco a fine maggio l'inviato speciale USA per la Siria, Thomas Barrack, ha proposto un "patto di non aggressione" come punto di partenza per la distensione tra Siria e Israele; ma la relazione tra i due Paesi sembra svilupparsi più sotto che sopra il tavolo. I bombardamenti israeliani sulle infrastrutture dell'esercito siriano sembrano voler impedire la costituzione di una forza armata ufficiale capace di controllare la Siria; d'altro canto, alcuni fatti sembrano far pensare che Tel Aviv tragga giovamento, direttamente o indirettamente, dalle formazioni jihadiste dentro e fuori la Siria, a partire dal rovesciamento di Assad.

Settimane addietro Benjamin Netanyahu, messo alle strette da una dichiarazione di Avigdor Lieberman, leader del partito Yisrael Beiteinu, ha ammesso candidamente che Israele arma da tempo jihadisti filo Isis a Gaza in funzione anti-Hamas. «Cosa ha rivelato Lieberman? Che fonti di sicurezza hanno attivato un clan di Gaza che si oppone ad Hamas? Cosa c’è di sbagliato in questo?», ha dichiarato Netanyahu su X. «Va tutto bene, salva la vita dei soldati israeliani nella Striscia di Gaza», ha aggiunto.

Secondo Times of Israel il governo Netanyahu, che in tempi passati aveva armato Hamas, ha fornito kalashnikov e altre armi alla formazione filo Isis, pur senza il consenso del gabinetto di guerra. Del resto non sono un mistero per nessuno le ambizioni espansionistiche israeliane sulla Siria, in particolare sul sud del Paese. All'indomani della caduta di Assad pattuglie dell'IDF con bulldozer al seguito hanno occupato il Golan e la fascia di confine fino quasi a Damasco, senza più lasciare la zona; un buon accordo con Al Charaa potrebbe portare Israele a un'acquisizione di diritto, oltre che di fatto, dei territori occupati.

Un'altra conseguenza drammatica e inevitabile della rinascita delle formazioni jihadiste in Siria è l'espansione dell'estremismo fuori dai confini del Paese. Il 10 maggio scorso la stessa Saraya Ansar al-Sunna, all'epoca semisconosciuta, ha diffuso un comunicato dichiarando l'inizio delle proprie attività a Tripoli, nel nord del Libano. Nel comunicato il gruppo minaccia di «colpire gli apostati alawiti, sciiti e drusi» nel Paese. Convogli di jihadisti sventolanti le bandiere di Al Qaeda e della shahada, simbolo delle conquiste arabo-islamiche, sono stati visti attraversare la città, tradizionalmente sunnita, che secondo fonti locali non si opporrebbe a divenire parte di un eventuale nuovo Califfato Islamico esteso a Libano e Giordania.

Intanto in Siria i cristiani sono scesi in strada contro le violenze di cui sono sempre più apertamente oggetto. La sera stessa del massacro a Sant'Elia una manifestazione pacifica ha avuto luogo a Bab Touma, uno dei quartieri cristiani di Damasco, al seguito di una grande croce. Il corteo ha chiesto la cacciata dei foreign fighter dalla Siria e che sia fatta giustizia per le vittime di tutti gli attentati e i massacri su base religiosa, di cui quello di Dwela è soltanto l'ultimo.

Anche i funerali dei “martiri di Sant'Elia” sono stati occasione per manifestare pacificamente e chiedere giustizia. Laure al Nasr è la vedova di Greis Bechara, che con suo fratello Boutros ha tentato di disarmare l'attentatore prima che si facesse esplodere. Secondo il racconto dei presenti, la prontezza dei fratelli Bechara ha distratto gli attentatori e impedito loro di sparare a molte più persone, prima che l'inevitabile accadesse. In un discorso pubblico toccante ma lucidissimo, Laure ha chiesto con coraggio ad Al Charaa di farsi carico personalmente delle indagini, invece di offrire attraverso i suoi ministri, come ha fatto, condoglianze vuote alle famiglie delle vittime. In prima persona al Charaa ha invece offerto la sua solidarietà al Qatar e agli altri Paesi del Golfo «per le minacce alla sicurezza dovute agli attacchi iraniani» offrendo ai governi minacciati “il pieno supporto della Siria».
La sensazione è che se i Paesi occidentali, ancora formalmente cristiani, non cominceranno a difendere i loro correligionari in sede internazionale, difficilmente questi ultimi avranno un futuro in Siria che non sia la morte o l'emigrazione forzata.



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