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MESTIERI & LETTERATURA / 6

I pastori metafora del viaggio e dell’attesa

Il mestiere del pastore è uno dei più antichi. Nella rappresentazione letteraria compare quasi sempre idealizzato e mitizzato  simbolo di una condizione primigenia dell’umanità a contatto con la natura, una sorta di Eden felice, oppure immagine paradigmatica dell’uomo in attesa della salvezza.

Cultura 24_10_2022

«Settembre, andiamo. È tempo di migrare./ Ora in terra d'Abruzzi i miei pastori/ lascian gli stazzi e vanno verso il mare» si apre così la celeberrima poesia I pastori di d’Annunzio, appartenente alla raccolta Alcyone.

Il mestiere del pastore è uno dei più antichi. Nella rappresentazione letteraria compare quasi sempre idealizzato e mitizzato, simbolo di una condizione primigenia dell’umanità a contatto con la natura, una sorta di Eden felice, oppure immagine paradigmatica dell’uomo in attesa della salvezza.

Nei Vangeli, nell’arte e nella letteratura cristiana il buon pastore è Cristo stesso, la pecora sulle spalle è l’anima salvata, l’intero gregge è la Chiesa. Il buon pastore si sente responsabile di tutte le sue pecore, le conosce ad una ad una, non fugge dinanzi al lupo, ma è disposto a dare la sua vita per loro.

Negli idilli Teocrito (315 a. C. – 260 a. C. circa) descrive un mondo lontano dal clamore, dalle angustie e dai problemi della città,  in cui i pastori sono anche cantori - poeti che si sfidano nei versi. 

Virgilio riprende il genere pastorale con le Bucoliche, composte tra il 42 a. C. e il 39 a. C., anni in cui la Repubblica romana sta attraversando un periodo difficile. A Filippi nel 42 a. C. gli assassini di Cesare (Bruto e Cassio) sono stati sconfitti, i triumviri procedono alla confisca di terre in area padana per distribuirle ai soldati fedeli che hanno combattuto in quegli anni dalla loro parte. Il dolore per la perdita delle terre da parte dei proprietari attraversa i versi delle egloghe.

I canti dei pastori sono ambientati in un’Arcadia idealizzata che in Virgilio non è mai luogo di evasione dalla realtà e di censura del dolore, ma è un ambiente in cui sono proiettate le tensioni, le tristezze e le contraddizioni della realtà. L’auspicio di una nuova epoca, di una stagione dominata dalla pace e dal ritorno all’età dell’oro pervade la quarta egloga in cui il poeta alza il tono e il registro dei versi rispetto alle bucoliche precedenti.    I versi della IV egloga virgiliana si fanno promotori dell’aspirazione ad un cambiamento radicale di un mondo percepito ormai come vecchio, superato, decaduto o corrotto. Il pastore - poeta auspica una palingenesi in modo che possa iniziare di nuovo la mitica età dell’oro. Fautore del nuovo ordine sarà un bambino che sta per nascere, un puer che porterà il mondo ad un’età felice e giusta. Interpretato come Cristo stesso nel Medioevo, il bambino che sta per nascere è probabilmente il figlio di Asinio Pollione (console nel 40 a. C. e amico di Virgilio).

Più di diciotto secoli più tardi Leopardi compone idilli il cui protagonista è quasi sempre il poeta, a contatto con la natura. Soltanto in uno di questi il poeta incarna i panni del pastore, uomo che si pone le domande sul fine e sul destino della vita. Si tratta del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia.

Con la semplicità che gli è propria, irriso ogni orgoglio, il pastore, di fronte a un ente che è segno di immortalità e di eternità, pone quelle domande che ha nel cuore e che sono ridestate dalla contemplazione del bello:

A che vale

Al pastor la sua vita,

La vostra vita a voi? dimmi: ove tende

Questo vagar mio breve,

Il tuo corso immortale?

Dinanzi al reale il pastore intuisce che un senso c’è e qualcuno lo conosce. Di fronte alle steppe, a montagne maestose, a promontori altissimi e al mare in tempesta, di fronte ai ghiacci dove l’uomo non può vivere e da millenni abitano strani e sconosciuti animali sorgono le domande: per chi esiste tutto ciò? Qual è il senso? Qual è il destino di tutto? Di fronte alla provocante e incommensurabile bellezza del cielo stellato, noi, come il pastore errante, ci chiediamo:

A che tante facelle?

Che fa l’aria infinita, e quel profondo

Infinito seren? che vuol dire questa

Solitudine immensa? e io che sono?

La domanda di senso sulla realtà rimanda alla domanda su di sé, non c’è, infatti, coscienza della realtà se manca la consapevolezza di sé, se manca la consistenza dell’io. E che cosa dà consistenza all’io? Un rapporto reale con un Tu che sa ed è consistente; è il rapporto che il pastore cerca con la luna immortale, giovinetta, che certo tutto sa. 

La statura dell’uomo risiede in questa consapevolezza e nella percezione del senso di vertigine di fronte all’incommensurabile Mistero: un senso di vertigine che rappresenta uno schiaffo al nostro orgoglio e alla nostra presunzione di misurare e di comprendere tutto; un senso di vertigine che, al contempo, spesso gli uomini non vogliono provare. I più  preferiscono, ignari o dimentichi della propria miseria, non provare la noia leopardiana, star quieti e contenti, giacere «a bell’agio», oziosi, come il gregge che posa, sazio, dopo aver mangiato, senza percepire noia e tedio.

Oltre che metafora dell’uomo saggio, che si interroga sulla vita, i pastori rappresentano anche l’homo viator, l’uomo in viaggio, in vigile attesa del compimento, come ci documenta Giovanni Pascoli (1855-1912) nella sezione intitolata La buona novella, tratta dai Poemi conviviali, in cui si racconta dell’attesa del Messia e della sua nascita.

Due sono le parti: In Oriente e In Occidente. Nella prima sono presentati dei pastori che richiamano il pastore errante dell’Asia di leopardiana memoria. I pastori sono in perenne attesa di una risposta dal Cielo, stanchi di aspettare con la loro domanda sempre lì, ineludibile, mentre il gregge si accontenta di pascersi. Come le stelle, anche i pastori non cessano mai di viaggiare. Uno dei pastori di nome Math canta:

O Dio, noi siamo come questa greggia

che va e va, né posso dir che arrivi,

nemmen se giunga al pozzo della reggia!

Un altro pastore tesse l’elogio del gregge, inconsapevole della morte e senza la domanda d’infinito nel cuore. Allora accade un fatto. Un canto invade i cieli e annuncia: «pace/ sopra la terra!». Un angelo annuncia: «Gioia con voi! Scese/ Dio sulla terra».

Ecco la buona novella, il Vangelo: Dio si è fatto uomo! I pastori si mettono in moto verso Betlemme ove un angelo mostra la capanna dove è nato il Messia. Entrando nella capanna, Math dice alla Madonna che i pastori stanno cercando colui che vive, colui che non muore. Risponde Maria: «Il figlio mio/ morrà […]/ in una croce… – Dio…».

È la stessa croce che troviamo nel X agosto, che permette di guardare diversamente la nostra croce, la nostra sofferenza. Allora tutto l’universo si rivolge a quel Bambino come a colui che è l’atteso da sempre. Che distanza, però, da quel Cielo immobile e lontano del X agosto!