Le proteste dei No Bezos viziate dal solito antitrumpismo
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Il pauperismo anticapitalistico e l'antiamericanismo invidioso non sono sufficienti a spiegare la campagna ostile dei "no Bezos". Se Mister Amazon fosse rimasto antitrumpiano, nessun movimento sarebbe nato a Venezia.

Le proteste organizzate a Venezia contro la sfarzosa cerimonia di nozze in città tra il magnate statunitense Jeff Bezos e Lauren Sanchez potrebbero essere considerate un episodio minimo, nel contesto della politica internazionale attuale, e delle sue ricadute sulla situazione interna italiana. E tuttavia questa vicenda rappresenta una esemplare cartina di tornasole di storture congenite nella cultura politica non solo del nostro paese, ma dell'Europa e dell'Occidente.
Che cosa ha spinto i collettivi "No space for Bezos" – in cui si sono ritrovate frange dell'ambientalismo radicale, dell'ultrasinistra dei centri sociali, del sindacato, persino dell'Anpi – a scagliarsi con tanto accanimento contro la scelta del mega-imprenditore, creatore del colosso del terziario mondiale Amazon, di ambientare la sua festa di matrimonio nella città lagunare italiana, famosa in tutto il mondo, investendo nell'operazione ben 40 milioni di euro, donandone ben 3 all'amministrazione locale, e dando lavoro a centinaia di persone, senza menzionare l'indotto e la pubblicità gratuita?
Una prima risposta è quella che individua la persistenza cronica e l'emergere ciclico, nel nostro paese, di un pauperismo ipocrita mosso in realtà dalla feroce invidia per chiunque primeggi e abbia successo nell'economia, nell'impresa, nelle professioni. Le storie personali di successo non hanno in Italia grande valore di esempio, non suscitano innanzitutto desiderio di emulazione. Esse generalmente inducono, invece, da un lato una diffusa, utilitaristica e conformistica adulazione; dall'altro l'auspicio a fatica celato, talvolta esplicito, che il vincente di oggi rovini domani fragorosamente nella polvere, venga umiliato, e su di lui gli adulatori dei giorni felici possano maramaldescamente infierire.
Si tratta di una tendenza strettamente connessa a una storia plurisecolare di modernizzazione faticosa, di economia di sussistenza di scala limitata, di industrializzazione parziale e tardiva, di statalismo paternalista. E che ha generato radicata avversione al capitalismo e alle logiche del mercato, vittimismo, convinzione che sia lo Stato, attraverso risorse drenata dal fisco, a dover risolvere i problemi economici e sociali. Essa si è riflessa ampiamente nella cultura politica della sinistra marxista/socialcomunista e della destra nazionalista/fascista, entrambe confluenti in una idea sostanziale di "Stato etico" promotore di giustizia; nel cattolicesimo sociale corporativista; infine, più recentemente, nell'"antipolitica" populista di scuola pentastellata, che sfocia nel mito di una società largamente sussidiata. E si traduce storicamente in una "narrazione" complottistica secondo la quale il successo dell'imprenditore quasi mai è descritto come frutto di creatività, audacia, intelligenza, ma tout court come il risultato di favoritismi politici, ruberie, corruzione.
Ad un secondo livello, nel rigetto radicale per i lussuosi festeggiamenti veneziani di Mister Amazon e signora possiamo individuare chiaramente un pregiudizio altrettanto radicato: quello antiamericano. Più precisamente, il pregiudizio nei confronti del ricco americano, visto come un rozzo cafone, incapace di comprendere la raffinatezza e profondità della storia culturale europea, e che riduce quest'ultima a un degradante luna park. L'antiamericanismo come espressione della frustrazione di élites e masse del vecchio continente, a partire dall'esito della seconda guerra mondiale, per l'impatto della strabordante superiorità economica ed egemonia politica statunitense si rovescia in un imbarazzante, snobistico, persistente complesso di superiorità nei confronti degli imprenditori di punta del Nuovo Mondo, che induce a guardare ad essi in chiave esclusivamente caricaturale e minimizzatrice, piuttosto che a chiedersi seriamente come mai – e tanto più nell'epoca del capitalismo digitale delle Big Tech – gli Stati Uniti producano una tale abbondanza e varietà di di imprenditori che, partendo da zero o poco più, riescono ad accumulare così enormi fortune, mentre l'Europa ne produce tanto pochi, e spesso sostenuti in misura determinante da aiuti pubblici.
Ma il pauperismo anticapitalistico e l'antiamericanismo invidioso non sono sufficienti a spiegare lo specifico caso di campagna ostile rappresentato dai "no Bezos" veneziani. Per comprendere pienamente, nel suo contesto, il tentativo ostinato di sabotare proprio le nozze del più grande "mercante digitale" globale – dei cui servizi gran parte del mondo si serve quotidianamamente, a cominciare dai suoi contestatori – è necessario ricondurlo in primo luogo alla retorica e polemica politica imperante oggi nelle sinistre occidentali, sempre più prive di argomenti programmatici comuni ma prontissime a coordinarsi come un sol uomo nell'attacco a quelli che vengono volta a volta individuati come nemici "esistenziali". Il procedimento in proposito è ormai abituale: si addita un avversario come nemico assoluto, lo si mostrifica, e quindi si demonizzano di riflesso tutti gli attori pubblici che lo sostengono, o anche quelli che non lo avversano abbastanza.
Inutile dire che il "mostro" in questo caso ha il ciuffo biondo e porta il nome di Donald Trump. E' la posizione nei confronti dell'attuale presidente statunitense, con la collocazione nell'attuale polarizzazione sinistra/destra americana, a determinare il modo in cui il complesso politico-mediatico progressista occidentale tratta i maggiori imprenditori, e in genere i personaggi di successo in qualsiasi campo.
I grandi boss delle Big Tech di Silicon Valley e dintorni sono stati incensati ampiamente come benefattori dell'umanità e filantropi fino a che sono stati schierati compattamente, disciplinatamente nel campo del Partito democratico. Quando invece uno dei maggiori tra loro, Elon Musk, cambiato posizione, prima facendo di X (ex Twitter) un tempio del free speech contro la ferrea censura di epoca Biden, poi appoggiando esplicitamente Trump, da genio è diventato immediatamente, in quella "narrazione" unica, un reietto, un cripto-nazista, un pericolo per la democrazia. E da quando poi il "Washington Post" di proprietà di Bezos non ha dato il suoendorsement a Kamala Harris, e successivamente addirittura il boss di Amazon ha presenziato - insieme a quelli di Facebook, OpenAI, Apple, Google – alla cerimonia di insediamento di The Donald, sancendo un certo avvicinamento alla nuova amministrazione, è scattata immediatamente la macchina della demonizzazione anche nei suoi confronti, come di tutti gli altri grandi manager, tornati "capitalisti nemici del popolo". Anche uno dei leader della protesta veneziana, il solito Tommaso Cacciari, ha ammesso con disarmanete sincerità di aver attaccato Bezos innanzitutto perché "ha materialmente, politicamente e fisicamente contribuito all'elezione di Donald Trump".
Se Mister Amazon fosse rimasto antitrumpiano, insomma, nessun movimento "No Bezos" sarebbe nato a Venezia, e le sue nozze sarebbero state decantate univocamente come un trionfo di eleganza, e un grande successo del nostro paese.