L'ansia del Libano, il vaso di coccio tra Israele e Iran
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I droni minacciosi israeliani sotto il cielo di Beirut e il timore che Hezbollah scenda in campo direttamente con l'Iran: «Per noi sarebbe la fine». Reportage dal Paese dei cedri dopo la "guerra dei 12 giorni".

C'è tanta aria tra Teheran e Tel Aviv. Sotto il cielo che nella "guerra dei dodici giorni" è stato squarciato da missili in ambo le direzioni sono nate e morte le più antiche civiltà, ed oggi vivono milioni di persone. La guerra aerea originata dall'aggressione dello Stato Ebraico ai siti nucleari iraniani ha coinvolto l'intera regione del Levante e condizionato ad ogni livello la vita quotidiana di interi Paesi.
Diretti in Libano il 13 giugno, abbiamo passato i primi sei dei "dodici giorni" in Turchia: il nostro volo per Beirut in partenza da Istanbul nel primo giorno dell'attacco israeliano è stato cancellato, così come tutti i voli successivi per il Libano, l'Iraq, la Siria, la Giordania oltre che per l'Iran e Israele. La maggior parte dei passeggeri provenienti quel giorno dall'Europa ha preferito rientrare, ma chi non ha potuto fare a meno di proseguire si è fermato in Turchia, in attesa di notizie. Chi scrive ha trovato alloggio in un albergo nei dintorni dell'aeroporto, assieme ad altri viaggiatori in ansia per la sorte dei loro cari, in un caos di notizie confuse e contraddittorie.
Frattanto i primi profughi iraniani raggiungono la Turchia: intere famiglie hanno attraversato a piedi il confine in fuga dalle bombe israeliane. Preparandosi al peggio, Ankara fa sapere che in caso di caduta del regime iraniano non accoglierà indiscriminatamente i profughi che dovessero chiedere asilo in Turchia. Dopo giorni di visite in aeroporto e speranze deluse, la compagnia di bandiera libanese Middle East Airlines annuncia la partenza di un volo per Beirut: prezzo "politico" 350 dollari. L'effetto della guerra non si è fatto attendere, ma non c'è molta scelta e ci imbarchiamo assieme a decine di passeggeri esasperati e allo stesso tempo ancora increduli, dopo tanta attesa, che sia arrivato il momento di raggiungere il Libano.
A Beirut ci attende il rumore sordo del drone israeliano che impone la propria presenza sinistra alla città: impossibile ignorarlo, impossibile farci l'abitudine. Per strada ogni tanto qualcuno alza lo sguardo al cielo nel tentativo di individuarlo; ma ad occhio nudo è molto difficile, e la sua stessa invisibilità lo rende se possibile ancora più minaccioso. «Bisognerebbe lavorare sottoterra, da lì forse non si sentirebbe», ci dice sconfortata Camelia, che in ufficio non riesce a concentrarsi perché il rumore penetra nella testa insinuandovi un'inquietudine sottile ma persistente. Tutti qui sono consapevoli che Israele potrebbe attaccare da un momento all'altro, in seno all'operazione "Rising Lion" contro l'Iran. Lo Stato Ebraico potrebbe anche utilizzare le proprie postazioni nel sud del Libano – è un altro timore – come rampe di lancio verso l'Iran, provocando ulteriore distruzione nell'area, già colpita quotidianamente da IDF. Un altro grande interrogativo è il comportamento di Hezbollah: se il partito di Dio volesse unirsi alla risposta militare iraniana attirerebbe sul Libano ulteriori strali di Israele.
Ci spostiamo al sud, nei dintorni di Saida, enclave sunnita in un territorio prevalentemente sciita e, in misura minore, cristiano. Qui l'egemonia di Hezbollah e Amal si sente forte e chiara, e l'ipotesi di un intervento del partito di Dio in soccorso all'Iran fa paura. «Hezbollah dice di aver consegnato le armi all'esercito libanese ma non è vero, ne ha ancora» sostiene in buon inglese Omar, abitante sunnita di un minuscolo villaggio alle porte di Saida. Obiettiamo che nell'ultima guerra Israele ha inferto un colpo notevole alla dotazione militare del partito di Dio, nonché ai suoi effettivi. «Hanno armi nascoste, sono la rovina del Libano» ribatte Omar, con un terrore che pare genuino. «Se Hezbollah decidesse di entrare in guerra a fianco dell'Iran – e ne ha la capacità – per il Libano sarebbe la fine». Consapevoli della provocazione insita nelle nostre parole, chiediamo a Omar da che parte starebbe se, messo alle strette, dovesse decidere tra Israele e Hezbollah: «Israele!» risponde senza esitazione.
Altri sei giorni sono passati e tra la Repubblica Islamica dell'Iran e lo Stato Ebraico è stata sancita la tregua, pronubo Donald Trump in persona. Il partito di Dio non è infine intervenuto al fianco degli Ayatollah. Davanti all'ambasciata iraniana di Beirut migliaia di persone, le donne velate di nero, celebrano «la vittoria dell'Iran». Le mani della folla stringono immagini della Guida Suprema Ali Khamenei e del defunto leader di Hezbollah Hassan Nasrallah. Bandiere gialle e tricolori sventolano sotto un sole impietoso, ma che non sembra smorzare l'entusiasmo e il senso di appartenenza alla grande comunità sciita. I gruppi scout "Iman Mahdi", ragazzi e ragazze con la spilletta di Ruollah Khomeini appuntata sulla camicia, sorridono e si lasciano fotografare con tutta la purezza dell'adolescenza.
Nei giorni successivi alla tregua tra Iran e Stato ebraico si osserva una recrudescenza degli attacchi israeliani nel Sud del Libano: mentre pare finora rispettare il cessate il fuoco con l'Iran, Israele sta incrementando le violazioni della tregua del novembre scorso con il Paese dei Cedri che provocano settimanalmente – col pretesto di colpire depositi di armi e postazioni di Hezbollah – decine di vittime civili. Mentre scriviamo, arriva la notizia che una donna è stata uccisa a Nabatiye; due giorni prima era toccato nella stessa zona a un padre e ai suoi due figli. Secondo le stime del Ministero libanese della salute pubblica, dalla tregua del 27 novembre scorso Israele ha provocato in Libano più di 2000 vittime. «Israele colpisce il Libano perché sa che il nostro governo è debole e non può rispondere al fuoco, né opporsi all'occupazione in corso nel sud», si sfoga Fadi, giovane di Beirut. In effetti le rimostranze del presidente della Repubblica libanese Joseph Aoun e del primo ministro Nawaf Salam cadono regolarmente nel vuoto. Di più, il presidente Aoun è raffigurato, alla sinistra di Trump e Netanyahu, in un manifesto comparso recentemente a Tel Aviv che sponsorizza i rinnovati Accordi di Abramo, e in cui compaiono i leader dei Paesi del Golfo e di altri Paesi arabi.
Vicino ad Aoun è raffigurato anche Ahmed al Charaa, leader di Hayat Tahrir al Sham e auto-proclamatosi presidente della Siria. Secondo il media israeliano Yedioth Ahronoth, lo Stato Ebraico e la Siria starebbero lavorando a un accordo di «normalizzazione dei rapporti», che prevederebbe l'annessione formale della regione del Golan e delle zone già occupate da Israele, in cambio del supporto israeliano alla “stabilizzazione” del regime di al Charaa. Lo stesso giorno della cacciata di Bashar al Assad, infatti, l'IDF ha invaso la buffer zone tra la Siria e le Alture del Golan, sottratte da Israele a Damasco nel 1967. Il Premier israeliano dichiarò come scopo principe dell'operazione l'interruzione dei rifornimenti militari tra Iran e Hezbollah. Da allora IDF si è impegnato in una costante avanzata che l'ha portato a pochi chilometri da Damasco; lungo il percorso dal Golan alla Capitale siriana bulldozer al seguito dei soldati hanno via via effettuato opere di sterro e costruito strade.
Che Israele voglia condurre un'operazione simile anche in Libano, cooptando le istituzioni oppure piegandole con la minaccia di una nuova guerra aperta, fino a indurle a cedere la parte di territorio libanese già occupata da IDF? Molti indizi sembrerebbero portare in questa direzione. Sulla riuscita o meno di un simile progetto influirebbe la reazione della popolazione libanese del sud, segnatamente di Hezbollah o di quel che ne resta. Israele ha imposto al Libano di disarmare il partito di Dio, ma è difficile quantificare l'effettiva capacità degli armamenti ancora in possesso della milizia.