Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
San Gennaro a cura di Ermes Dovico
LEZIONI DI MAFIE

Gratteri, il magistrato che fa televisione contro la riforma

Un nuovo confine è stato superato. Dopo i magistrati che fanno politica, abbiamo anche quelli che fanno televisione: Nicola Gratteri, procuratore capo di Napoli, ha la sua trasmissione su La7, Lezioni di mafie. Che è un'operazione politica.

Politica 19_09_2025
Il magistrato Gratteri alla festa del Fatto (La Presse)

Ha fatto molto discutere l’annuncio della nuova trasmissione su La7 intitolata Lezioni di mafie, condotta dal Procuratore Capo di Napoli Nicola Gratteri, che ha esordito mercoledì scorso con la prima di quattro puntate, con la possibilità di estensione in caso di successo. Il programma, presentato come un contributo alla formazione civile e alla lotta culturale alla criminalità organizzata, ha sollevato un vespaio di polemiche, tanto nel mondo politico quanto in quello giudiziario, perché si inserisce in un contesto politico e istituzionale estremamente sensibile: quello della riforma costituzionale della magistratura promossa dal governo e che sarà sottoposta a referendum popolare nella prossima primavera.

Che un Procuratore della Repubblica in carica, per giunta in una delle sedi più complesse e delicate d’Italia (Napoli), scelga di condurre stabilmente una trasmissione televisiva, sia pure con intento pedagogico, rompe un argine tradizionalmente invalicabile tra la funzione giudiziaria e la dimensione mediatica. Si tratta, secondo alcuni osservatori, di una deriva personalistica e vanitosa che, purtroppo, non è nuova tra certi magistrati di primo piano, sempre più spesso tentati dalle luci della ribalta, tra interviste, libri e partecipazioni televisive, e sempre meno inclini alla riservatezza e al rigore che la funzione impone.

Ma nel caso specifico di Gratteri il sospetto va ben oltre. Il rischio paventato da molti – e non solo tra le file del centrodestra – è che quella di Lezioni di mafie sia in realtà una sofisticata, seppur indiretta, forma di campagna politica camuffata, destinata a rafforzare il fronte del “no” in vista del referendum costituzionale che chiamerà gli italiani a esprimersi su una riforma strutturale della magistratura, incentrata sulla separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. Un progetto fortemente voluto dal Ministro della Giustizia Carlo Nordio, e già approvato dal Parlamento, che mira a scardinare quello che molti considerano un blocco di potere autoreferenziale, incapace di autocritica e in costante tensione con la politica. E Gratteri, che ha sempre difeso la visione unitaria della magistratura e respinto con forza l’ipotesi di separazione delle carriere, potrebbe utilizzare il programma televisivo come megafono per sostenere indirettamente la posizione delle toghe, travestendo un messaggio corporativo in un’opera di divulgazione culturale.

La sua motivazione, espressa con chiarezza alla stampa, è che si tratti di un impegno civile. E qui sta il punto: quando un magistrato diventa personaggio pubblico, interviene costantemente nel dibattito politico, si pronuncia su questioni legislative, frequenta con regolarità studi televisivi e diventa protagonista del palinsesto, il confine tra funzione istituzionale e ruolo politico si assottiglia fino a svanire. La magistratura non parla per spot né dovrebbe farlo per slogan: parla attraverso i provvedimenti. E se è vero che ogni decisione giudiziaria ha, inevitabilmente, un contenuto politico, è anche vero che l’autorevolezza della magistratura deriva dalla sua distanza dal consenso, non dalla sua ricerca.

Gratteri, al contrario, pare aver interiorizzato una missione che va ben oltre i limiti del ruolo: quella di influenzare l’opinione pubblica, di orientare le coscienze, di essere, se non un leader, un riferimento morale e culturale. Non è in discussione il valore del suo lavoro, né la profondità della sua conoscenza del fenomeno mafioso, maturata in decenni di attività sul campo, soprattutto in territori ad altissimo rischio come Reggio Calabria, ma è legittimo domandarsi se questa discesa in campo mediatica sia compatibile con la terzietà che la Costituzione assegna ai magistrati. Se poi si considera che il tema della trasmissione – la mafia – è anche il campo di battaglia su cui Gratteri ha costruito la propria notorietà, allora si capisce che l’operazione può avere un effetto di rafforzamento simbolico della sua figura pubblica, proprio mentre si prepara un appuntamento referendario che chiama in causa direttamente i magistrati.

Non sorprenderebbe nessuno se Gratteri, sulla scia di questo attivismo, decidesse domani di candidarsi, come altri magistrati hanno già fatto, magari con l’appoggio di forze politiche che vedono in lui un punto di forza contro la riforma. Ma anche senza una candidatura diretta, la sua esposizione mediatica crea un clima, un humus culturale favorevole alla magistratura, proprio mentre la politica cerca di ridefinirne i confini e i poteri. E allora ci si domanda: è lecito che un magistrato in carica si comporti come un opinionista? È opportuno che un pubblico ministero, che ogni giorno rappresenta l’accusa in nome dello Stato, diventi anche educatore delle coscienze in prima serata televisiva? Il viceministro alla Giustizia Francesco Paolo Sisto ha già espresso le sue perplessità, definendo l’iniziativa inopportuna. E non pochi osservatori notano che, nella battaglia sotterranea tra politica e magistratura, Gratteri stia scegliendo di salire in cattedra per portare avanti, consapevolmente o meno, una forma di controcampagna che fa leva sull’empatia, sull’autorità morale e sulla familiarità costruita con il pubblico attraverso anni di esposizione mediatica.

Il punto più critico, però, resta la confusione tra funzione giudiziaria e funzione politica. La proposta di separare le carriere, proprio perché tiene conto della natura profondamente politica del pubblico ministero – che sceglie quali reati perseguire, in quali ambiti concentrare le risorse, quali priorità assegnare all’azione penale – mira a restituire alla magistratura giudicante quella neutralità che l’attuale sistema misto, con carriera unica, ha eroso nel tempo. Chi dirige l’azione penale di fatto costruisce la politica criminale dello Stato, e per questo motivo dovrebbe operare sotto un controllo democratico più stringente, o addirittura, secondo alcuni, essere scelto con meccanismi rappresentativi anziché per concorso.

Gratteri, al contrario, difende con forza l’attuale sistema, e questo rende il suo ruolo televisivo ancora più controverso. In definitiva, la questione non è se Gratteri sia animato da buone intenzioni, né se il programma in sé possa contribuire alla crescita civile del Paese. La questione vera è se un magistrato possa, senza compromettere l’imparzialità che la sua funzione richiede, trasformarsi in comunicatore, in opinion leader, in interprete della realtà sociale e politica. Il rischio è quello di una nuova forma di protagonismo, più seducente e pericolosa: quella della magistratura mediatica, che non solo indaga e giudica, ma insegna, spiega, orienta, e magari, tra le righe, invita anche a votare.