Foa epurato dalla Rai, il centrodestra soffoca il pluralismo
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Chiusa senza preavviso la trasmissione "Giù la maschera" su Radio 1, l'azienda sembra aver imboccato la strada dell'allineamento e l'attuale maggioranza si mostra incapace di valorizzare le sue energie migliori, anche aprendosi al confronto interno.

Marcello Foa ha scoperto dai giornali, e non dalla sua azienda, che la sua trasmissione “Giù la maschera” su Radio 1 sarebbe stata chiusa. Non un preavviso, non una telefonata, non una spiegazione ufficiale. Un ex presidente della Rai, giornalista di lungo corso, autore di libri apprezzatissimi dalla comunità scientifica e dal grande pubblico, professore universitario, trattato come l’ultimo degli stagisti.
Un siluramento silenzioso, tanto più grave perché colpisce una voce libera, riflessiva, mai ideologica, e anzi capace di tenere insieme in uno stesso spazio radiofonico opinioni, sensibilità e visioni molto diverse. Una trasmissione che aveva il merito raro – oggi più che mai – di praticare davvero il pluralismo. Ne erano prova i suoi ospiti: da Peter Gomez ad Alessandra Ghisleri, da Giorgio Gandola a Luca Ricolfi e ad altri intellettuali e giornalisti difficilmente riconducibili a una specifica area politica, certamente non assimilabili al melonismo o al sovranismo duro e puro. Eppure è proprio questo approccio, pluralista, aperto, ragionato, a rappresentare un problema per l’attuale gestione Rai.
L’azienda, con il recente cambio al vertice di Radio 1 – Nicola Rao, dichiaratamente meloniano, ha preso il posto di Francesco Pionati – sembra avere imboccato una strada netta: quella dell’allineamento. Di conseguenza, le voci non conformi, anche quando provengono dall’area di centrodestra, vengono emarginate, ignorate, spente. È il caso di Foa, la cui esclusione segnala un problema molto più ampio: l’incapacità dell’attuale maggioranza di governo di valorizzare le sue energie migliori, di includere, di aprirsi davvero al confronto interno. Ogni discostamento dalla narrazione ufficiale viene considerato un tradimento. Ogni posizione autonoma, non obbediente, diventa un ostacolo. E così il conformismo ha la meglio sulla riflessione, la fedeltà sulla competenza, la propaganda sul dibattito. Ma questa non è forza: è debolezza.
È l’atteggiamento di una classe dirigente che, arrivata al potere dopo anni di opposizione battagliera e incendiaria, si scopre incapace di fare ciò che prometteva: cambiare il sistema. E, invece, lo replica. Anzi, lo peggiora. La premier, che da leader dell’opposizione denunciava le lottizzazioni, le censure, la mancanza di libertà, oggi si chiude dietro una barriera invalicabile di fedelissimi. Evita i giornalisti, non concede vere interviste, rifugge ogni confronto diretto con la stampa, anche in occasioni istituzionali dove sarebbe doveroso – e non opzionale – rispondere alle domande. È un atteggiamento che tradisce paura, non forza. E che conferma quanto l’informazione indipendente, per questo governo, rappresenti un fastidio più che un valore.
La lezione di Foa è chiara: se non ti allinei, se non ti adegui, vieni messo da parte, anche se appartieni a quell’area politica. E qui sta il paradosso più grande: il centrodestra non solo non costruisce – come ha osservato Marcello Veneziani – ma non sa nemmeno comandare. Perché comandare non significa occupare spazi, zittire le voci critiche, premiare i fedelissimi e punire i liberi pensatori. Comandare davvero significa includere, valorizzare il merito, non temere il confronto, riconoscere la pluralità dei punti di vista. Un potere che non accetta la complessità si trasforma in dominio, in controllo, in appiattimento. E alla lunga, diventa sterile.
La Rai, in tutto questo, continua a comportarsi come nei decenni passati: uno specchio dei rapporti di forza tra partiti, più che un’azienda pubblica al servizio dei cittadini. Eppure dovrebbe esserlo: pagata con il canone di tutti, dovrebbe garantire spazio, equilibrio, libertà. Invece, si riduce a macchina di propaganda. Toglie voci libere come quella di Foa per fare posto a nuovi contenitori monocolore, capaci solo di confermare le tesi del potere in carica. Ma questo non fa che allontanare il pubblico. Le nuove generazioni, che crescono su piattaforme dove la libertà d’espressione è ben più ampia (nonostante tutte le distorsioni dell’algoritmo), percepiscono la Rai come un residuo del passato, incapace di parlare davvero alla società, chiusa in una bolla autoreferenziale, appiattita su uno schema di potere che non comprende e non vuole comprendere il presente. Il conto arriverà presto: la disaffezione, il disinteresse, l’abbandono progressivo del servizio pubblico da parte di chi non si riconosce più in una narrazione così impoverita, così uniforme, così incapace di accogliere la complessità del reale.
La chiusura di “Giù la maschera” è il sintomo di un sistema che rifiuta lo specchio, perché non vuole vedersi per quello che è. Ma togliere lo specchio non elimina le rughe: le nasconde soltanto, temporaneamente. Prima o poi, qualcuno gliele rinfaccerà. Magari proprio coloro che oggi vengono ignorati, silenziati o trattati come fastidi. Perché il pensiero libero non si estingue: si sposta, cambia forma, trova nuovi spazi. E continuerà a porre domande, anche quando il potere smetterà di ascoltare.
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