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EDITORIALE

Capucci, emblema di un conflitto irrisolto

La morte di monsignor Hilarion Capucci, il vescovo che appoggiò il terrorismo palestinese contro Israele, deve indurre a una riflessione sul conflitto mediorientale. Basta vedere le reazioni: chi lo condanna e chi lo esalta per la sua lotta per la libertà. Ma tutti dimentichi che la pace è un dono di Dio...

Editoriali 03_01_2017
Monsignor Capucci

La veneranda età – il 2 marzo avrebbe compiuto 95 anni – non lasciava presagire l’improvvisa morte  a Roma dell’ arcivescovo greco-melchita cattolico Hilarion Capucci che ha raggiunto a Capodanno la Casa del Padre. Come ogni domenica,  il 25 dicembre,  nella chiesa patriarcale di Santa Maria in Cosmedin (custodisce nella facciata la famosa “Bocca della Verità”)  aveva celebrato la Divina Liturgia insieme con l’archimandrita Mtanios Haddad, procuratore del patriarca Gregorios III Laham. Sabato sera, nella sua residenza all’EUR, si era sentito male: sintomi di influenza e difficoltà respiratorie avevano consigliato il ricovero. L’indomani, tra mezzogiorno e l’una, il repentino transito.  .     

Ci dice padre Haddad che da quasi vent’anni, da quando ne aveva compiuti 75, al prestigioso titolo di arcivescovo di Cesarea di Palestina mons. Hilarion ben Bashir Kaboudji (nella translitterazione italiana: Capucci) aveva unito, per riconoscimento della Congregazione per le Chiese Orientali, quello di “Vicario patriarcale in esilio di Gerusalemme”.  Un titolo che ha inteso rispettare “il suo talento e la sua dignità”; ma  ha pure sintetizzato, e dischiuso, la storia unica, singolare e  controversa, di una personalità più che vigorosa, combattiva, nel tempestoso scenario del Vicino Oriente. Nato ad Aleppo il 2 marzo 1922 , quindi siriano, monaco dell’Ordine Basiliano Aleppino, era stato ordinato vescovo nel settembre 1965 e nominato Esarca a Gerusalemme dal patriarca Maximos V. Nove anni dopo, nel settembre 1974, era stato arrestato e tre mesi dopo, a dicembre, condannato a 12 anni di carcere.

Un tribunale israeliano lo aveva infatti riconosciuto colpevole del tentativo di introdurre, nel capiente bagaglio della sua automobile con targa diplomatica (per lo status privilegiato di cui godeva come capo religioso) armi ed esplosivo per l’organizzazione palestinese Al Fatah, di cui si professava convinto sostenitore in tempi di eclatanti imprese terroristiche. Un autentico campionario, composto da mitra, dinamite, bombe a mano, munizioni, tanto da ingenerare sospetti e poi l’esplicita accusa di molti giornali arabi di una messinscena dei servizi segreti israeliani che in tal modo intendevano “sbarazzarsi” di un personaggio apertamente ostile. Mentre i media  israeliani ribattevano che Capucci era stato finalmente colto “con le mani nel sacco” .

Il “caso Capucci” si era amplificato nell’area:  il vescovo  “eroe palestinese” era divenuto popolare in Siria, Iraq, Egitto, Libia, Sudan e un rompicapo per la diplomazia vaticana che cercava di ottenerne il rilascio da uno Stato con il quale, però, non intratteneva alcun rapporto diretto. Il patriarca Maximos ricordava invano quei vescovi cattolici che avevano messo a rischio la propria vita per salvare quella di tanti ebrei. Infine – ma erano trascorsi tre anni  –  papa Paolo VI si decideva, e con successo, di chiedere personalmente al presidente dello Stato Katsir di “far uso delle sue prerogative e di liberare mons. Capucci a causa delle sue condizioni di salute”; fiducioso, aggiungeva, che la libertà del Prelato “non nuocerà allo Stato d’ Israele”.  

Il 6 novembre 1977 mons. Capucci raggiungeva in aereo Roma. La sua scarcerazione era condizionata da due clausole vincolanti: non avrebbe mai più dovuto ritornare  in Medio Oriente e si sarebbe dovuto astenere da ogni attività politica, in pratica da tener contatti con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Si era parlato di un suo ritiro in un monastero dell’America Latina. Ma ecco che poco dopo un anno si recava a Damasco per partecipare ad una riunione del comitato esecutivo dell’OLP presieduta da Yasser Arafat; avrebbe quindi raggiunto l’Iran, coprendo di elogi il suo presidente Khomeini. 

E continuava a violare gli obblighi assunti per lui da Papa Montini. All’imbarazzo della Santa Sede si accompagnava la puntuale e scrupolosa annotazione, da parte delle autorità e dei media israeliani, di tutte le sue “infrazioni”, anche le minime, in cerimonie e celebrazioni palestinesi, e soprattutto di quelle che facevano scalpore. Come, nel 2002, all’epoca della seconda Intifada, la dichiarazione nella quale esaltava i suoi martiri “che vanno alla morte come a una festa”. Memorabile la polemica di Oriana Fallaci contro l’atteggiamento “vergognoso” di mons. Capucci “per aver ringraziato in nome di Dio i kamikaze che massacrano gli ebrei nelle pizzerie e nei supermercati”. 

Il “colmo” della sua “sfrontatezza” – ma anche, per un altro verso, di un fervente “patriottismo” –  viene considerata la sua partecipazione nel 2010, quando ha ben 88 anni, alla “Freedom Flotilla”  che tenta di infrangere il blocco navale israeliano di Gaza. E’ imbarcato sulla “Mavi Marmara” dove nel conflitto moriranno nove  attivisti filo palestinesi e altri saranno feriti. Si teme che mons. Capucci, trasferito nella prigione della città di Beersheva, rimanga recluso in Israele per scontare i nove anni di carcere che gli erano stati condonati nel 1977. Invece viene espulso. Israele e Santa Sede tengono a mantenere i buoni rapporti diplomatici stabiliti in seguito al loro “Accordo fondamentale” del 30 dicembre 1993.         

Ma mons. Capucci non si ferma. Nell’agosto 2011 istituisce a Malta una Fondazione che porta il suo nome, e che presiede, con la quale intende “rinnovare un concreto impegno per il progresso dei diritti umani e della pace in Medio Oriente e particolarmente in Palestina”. L’ultima sua lettera, resa nota proprio in occasione della sua dipartita, è un omaggio “alla fermezza di tutti i prigionieri palestinesi che difendono i diritti del loro popolo di vivere in pace, senza occupazione e sofferenze”. L’ultimo suo sguardo è verso la Città Santa: “Ritornerò alla mia Gerusalemme molto presto, afferma. In una Gerusalemme libera, a Gerusalemme città della coesistenza, della pace, dell’unità sociale dove la bandiera palestinese sarà innalzata contro la politica di ebraicizzazione, deportazione, arresti e colonie”.  

La salma di mons. Capucci sarà presto trasferita in Libano per le prime esequie a Sarba, presso la città di Junie, nella Casa madre dell’Ordine Basiliano Aleppino. Il patriarca greco-melchita  Gregorios III Laham presiederà anche altre celebrazioni funebri  a Gerusalemme, Damasco e Aleppo: infine, prevedibilmente a fine mese, a Roma.   

Si può affermare che la vita di mons. Capucci sia emblematica di un conflitto irrisolto. Da sempre contrastanti, continuano a restare antitetiche le interpretazioni della sua storia personale, del significato di  ogni suo gesto, le visioni di un futuro nei rapporti tra israeliani e palestinesi  nella regione. Gli israeliani ricordano  ancora oggi le sue trasgressioni del passato, il suo sostegno ai terroristi, la clemenza oltraggiata del loro Stato; i palestinesi esaltano la lotta per la realizzazione del loro Stato con Gerusalemme capitale e contro la protervia ebraica. Su Internet sono reperibili varie commemorazioni di mons. Capucci. Alberto Palladino evoca “la forza di un leone (raffigurata nella sua barba) al servizio della pace per il Medio Oriente e il mondo”.
Ma da nessuna parte si può leggere il riconoscimento che la pace è un dono di Dio e gli uomini sono chiamati a edificarla nell’amore reciproco.