Yemen, l'illusione del contagio arabo
Il paradigma della rivoluzione araba sta cambiando. Su tutto incombe lo spirito del 1989, quando i Paesi dell'area sovietica si liberarono praticamente tutti assieme di Mosca.
 
		                                        
Sana’a, dal nostro inviato. C’è uno spettacolo insolito  all’incrocio fra Sherre Sittin e Sherre Rabat. I negozi e i ristoranti  aperti persino durante la preghiera del venerdì e sovranamente  indifferenti ai tumulti delle settimane scorse oggi sono deserti e  nascosti dalle imposte di metallo. Il passaparola magico che regola la  vita della capitale dello Yemen ha messo in guardia: è in marcia una  corteo di protesta, e questa volta sarà differente, questa volta sarà  come nelle città a sud di Aden e Taizz, dove da due giorni si contano i  primi morti. Si salvi chi può, pure i venditori ambulanti si dileguano.  Quasi subito, dall’altro lato del lungo rettilineo, si materializzano i  più feroci oppositori dei manifestanti, che non sono gli agenti della  polizia, ma i picchiatori a noleggio del presidente Ali Abdullah Saleh. E  dietro i picchiatori i fuoristrada che trasportano i kit per  trasformare chiunque in un controrivoluzionario fatto e finito su due  piedi, le bandiere nazionali da sventolare, i poster con la faccia  severa del presidente Ali Abdullah Saleh da innalzare e le mazze da  distribuire e adoperare. I veicoli di lusso sono gli stessi che a  operazione compiuta portano via in fretta – ma dove? – i capi squadra  più importanti. 
 
 La disoccupazione al 40 per cento ha dato loro un bel mestiere:  squadristi a cottimo in favore del regime trentennale del presidente  Saleh. Sono una legione compatta di straccioni in età militare, ma c’è  pure il teppistello di dieci anni con il bastone e il leone sdentato di  sessant’anni che ancora se la cava a menare le mani. Sono la brigata  mobile del governo yemenita, senza nulla da perdere, pagata sottobanco  per sbrigare l’opera di repressione che invece il governo non può più  assolvere senza gettare alle ortiche le apparenze – e le apparenze da  salvare sono importanti, c’è in ballo un viaggio del presidente a  Washington il prossimo mese, e la settimana scorsa è arrivata la prima  tranche di un finanziamento da 70 milioni di dollari contro i terroristi  di al Qaida. 
 
 Sono la versione yemenita dei cammellieri che due  settimane fa hanno attaccato a frustate i manifestanti egiziani in  piazza al Cairo, ma sono stati più furbi e hanno occupato  preventivamente la piazza Tahrir di Sana’a – si chiama così anche qui –  per evitare che diventasse il centro simbolico dell’opposizione.  Dovunque ci sia una protesta, appaiono loro a spegnerla con la violenza.
 Questa volta però l’operazione è più difficile. I manifestanti sono una  folla, riempiono la strada per più di un chilometro, sono in maggioranza  studenti universitari e per un giorno hanno smesso quell’aria che fa  quasi tenerezza di chi crede – come gli studenti di tutto il mondo – di  essere qualcosa di più e invece è qualcosa di meno. In mezzo a loro c’è  chi estrae un’arma e spara in aria tra le grida di entusiasmo degli  altri. Per cinque settimane – appena è arrivata la notizia della  ribellione tunisina – hanno manifestato pacificamente in giro per Sana’a  e sono stati zittiti con le maniere forti. Adesso occupano tutta  un’arteria vitale della città e scambiano colpi furiosi con gli  avversari. Anche dall’altra parte si ascoltano pochi spari, e sarà così  ogni ora durante tutta la durata degli scontri, perché le armi in Yemen  circolano liberamente. Ma il grosso si fa a pietrate. Sassi che volano  dappertutto, in lunghe parabole arcuate e lente o in tiri diretti e  insidiosi, sfondano quello che è stato incautamente lasciato all’aperto e  fanno sbandare a turno e più volte i due schieramenti. Lontana, dietro i  tifosi del governo, la polizia osserva senza intervenire. E’ come se ci  fosse un patto sottile non scritto e la violenza piena fosse per ora  trattenuta, perché le conseguenze sarebbero troppo estreme. 
 
 Per ora, anche se tutti promettono altre giornate di violenza,  la rivolta in Yemen impallidisce di fronte a quello che già sta  succedendo in Libia, dove i morti negli scontri sono sei, e nel Bahrein.  Dalla capitale Manama l’inviato del New York Times, Nicholas Kristof,  scrive di un’operazione brutale dell’esercito per sgombrare la centrale  piazza delle Perle trasformata in accampamento. I soldati avrebbero  giustiziato a sangue freddo con colpi alla testa alcuni manifestanti,  avrebbero impedito i soccorsi alle ambulanze e avrebbero bloccato tutti i  giornalisti all’aeroporto, per levarsi di torno i testimoni stranieri. 
 La relativa facilità del cambio di regime in Tunisia è stata illusoria.  Durante i diciotto giorni dell’Egitto ci sono stati trecento morti,  anche se la vastità delle folle in rivolta e la tenacia disarmata di  piazza Tahrir hanno fatto passare in secondo piano il sangue. In altri  paesi, dove la sicurezza è più aggressiva e il numero dei manifestanti è  sparuto, il paradigma della rivoluzione araba sta diventando un altro.  Sul contagio arabo incombe non lo spirito dell’89, quando tutti i paesi  dell’area sovietica si liberarono quasi assieme del giogo di Mosca, ma  piuttosto il ricordo dell’Iraq nel 1991, quando, subito dopo la  sconfitta nella guerra del Golfo, gli sciiti tentarono di ribellarsi a  Saddam Hussein. Credevano, ma la loro era una percezione errata, che il  regime dopo la guerra disastrosa con gli americani fosse più  vulnerabile, e credevano che la sollevazione popolare avesse i numeri  per farcela. Ma i rapporti di forza non mentono mai e la repressione  militare baathista si chiuse su di loro con tutta la spietata efficienza  che non aveva mostrato davanti alle divisioni del generale Norman  Schwarzkopf. Il senso di marea inevitabile, di un popolo che cresce e  con solennità prevale sulle difese del regime, è potentissimo quando  c’è. Ma quando non c’è, quando mancano i numeri e i regimi hanno  studiato in fretta la lezione di Mubarak e si sono ripromessi di non  essere così deboli, cortei di manifestanti e squadre di  controrivoluzionari sono intrappolati in un’intifada micidiale.																								 																						
Da Il Foglio del 18-02-2011

 
					
 
             
            