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La questione

Suicidio assistito, cosa insegna il caso Abruzzo

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Il Consiglio regionale abruzzese ha bocciato un progetto di legge sul suicidio assistito. Per il consigliere D’Amico è una bocciatura assurda perché in Italia c’è già la legge 219. Un’argomentazione corretta, ma con premesse errate. Perché il problema all’origine è proprio quella legge.

Editoriali 25_06_2025
Consiglio regionale Abruzzo (ImagoEconomica, 2001)

Il 19 giugno scorso la Regione Abruzzo, guidata da Marco Marsilio (Fratelli d’Italia), ha bocciato il progetto di legge di iniziativa popolare dell’Associazione Coscioni sul suicidio assistito. Stessa bocciatura si è registrata in Lombardia e in Piemonte. La Regione Veneto ha invece rimandato la proposta in Commissione. Solo la Regione Toscana si è dotata, sinora, di una legge sull’aiuto al suicidio.

Molto interessante, sotto il profilo giuridico e quindi politico, il commento del consigliere regionale Luciano D’Amico sulla bocciatura voluta dal Consiglio regionale abruzzese. D’Amico, con i gruppi di PD, Abruzzo Insieme, M5S, AVS, Azione e Riformisti, compone la coalizione di opposizione del Patto per l’Abruzzo. Scrive D’Amico: «In Italia ai sensi della legge 219/17, un malato può scegliere il rifiuto delle terapie o l'interruzione della sedazione profonda, oppure, ricorrendo le condizioni previste dalla sentenza 242/19, accedere all'aiuto alla morte volontaria. […] Oggi è possibile interrompere la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale e morire per disidratazione o per progressiva compromissione delle condizioni fisiologiche avviandosi verso la morte con sofferenze inaudite, ma non fare ricorso al suicidio assistito. Così come è possibile rifiutare il supporto di ventilazione meccanica e affrontare la morte per progressivo soffocamento, ma non accedere al suicidio assistito: non si capisce il motivo, ma bisogna soffrire anche per morire».

Al netto dell’enfasi pietistica che rimanda a scenari irreali – oggi chi muore perché chiede la cessazione dei supporti vitali viene prima sedato e quindi muore non soffrendo – l’argomentazione di D’Amico purtroppo non fa una piega. Seppur occorra fare qualche distinguo. Partiamo dalle assenze di pieghe nella sua riflessione. D’Amico sta dicendo che se, ex lege 219, oggi è legittimo morire tramite il rifiuto di trattamenti salvavita – idratazione, nutrizione e ventilazione assistita – non si capisce il motivo per cui non può essere legittimo morire anche tramite il suicidio assistito. Sancito il diritto a morire, perché non permettere di declinarlo in tutte le sue modalità di esercizio, compreso l’aiuto al suicidio? Accettata la premessa (errata) non si possono che accettare anche tutte le sue necessarie conclusioni (altrettanto errate).

Questo è uno dei motivi per cui il Parlamento si è visto costretto ad avviare l’iter di approvazione di un disegno di legge sul suicidio assistito. In buona sostanza, la legge 219/2017 che ha legittimato l’eutanasia in alcuni casi chiede coerenza: che si legittimino anche tutti gli altri casi. Oltre alla legge 219, la maggioranza di centrodestra in Parlamento, come già facevamo notare di recente, ha subito il pressing psicologico delle plurime vertenze innescate dai Radicali, della legge della Toscana sul suicidio assistito, della campagna Liberi subito sempre dei Radicali e soprattutto delle sentenze della Corte Costituzionale che ha chiesto da tempo al Parlamento di legiferare sulla materia. Dunque, purtroppo, date queste premesse (errate), una legge sul suicidio assistito sarà inevitabile.

Passiamo ai distinguo in merito alle parole di D’Amico, distinguo che quest’ultimo non ha fatto. In primis annotiamo che, de facto ma anche de iure, oggi chi vuole accedere al suicidio assistito lo può fare. Non grazie ad una legge che non c’è ancora, ma grazie alle sentenze della Consulta. Dunque, il presunto diritto a morire per mano propria è, sul piano pratico, purtroppo esercitabile in Italia.

Il secondo rilievo è il seguente: come accennato, il ragionamento del consigliere D’Amico è corretto – se la legge 219 legittima il diritto a morire, che questo diritto sia esercitabile tramite tutte le modalità – ma è corretto su scala nazionale, non regionale. La legge 219 chiede per sua natura una sua applicazione più estensiva, ma l’organo competente a realizzare questo suo ampliamento applicativo non è il Consiglio regionale, bensì il Parlamento italiano, perché – ratione materiae – questa tematica è di competenza esclusiva del Parlamento.

Terza considerazione. D’Amico chiama in causa la Corte costituzionale per lagnarsi del fatto che la Regione Abruzzo ha bocciato il disegno di legge sul suicidio assistito. Ma la Consulta ha esplicitamente richiesto più volte al Parlamento di pronunciarsi, non ai Consigli regionali. Se poi si verificassero dei casi di aiuto al suicidio, si dovrebbero applicare, così come è stato fatto sinora, le sentenze della Consulta per dirimere le controversie, ma queste sentenze non possono diventare un canovaccio per redigere leggi regionali sull’aiuto al suicidio, come invece ha fatto la Regione Toscana.

Senza poi scordare un aspetto dirimente: la Consulta ha giocato a fare il legislatore, indicando criteri e procedure per permettere l’aiuto al suicidio e non limitandosi, come avrebbe dovuto fare nel rispetto dei ruoli, a qualificare come parzialmente incostituzionale l’art. 580 del Codice penale, che sanziona l’aiuto al suicidio. In buona sostanza, i casi di aiuto al suicidio che ad oggi sono stati permessi, lo sono stati non in virtù di una norma, che manca, ma di alcune sentenze della Consulta. Un’altra stortura in tutta questa sporca faccenda che di questo passo volgerà sicuramente al peggio.