Simboli episcopali: anche l'abbandono del latino è una "moda"
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Un grossolano errore nella Basilica liberiana tradisce l'allergia per la lingua della Chiesa da cui non si salvano neanche i brevi motti dei vescovi, mentre certi stemmi sembrano più adatti a una Ong. Non è questione di dettagli, ma di declino culturale.
Si dice che il diavolo si nasconda nei dettagli, ma vi si nasconde anche l’ignoranza, celata nella Basilica romana di Santa Maria Maggiore in un gradino della nuova sede, recante la scritta: «Franciscus P.M.A.X.». Il fatto è che, se la «P.» sta chiaramente per Pontifex, quel «M.A.X.» non dovrebbe essere inframmezzato da puntini, essendo un’unica parola: Maximus.
Una minuzia, dirà qualcuno; uno «sfondone», dice piuttosto Gian Maria Vian nell’articolo intitolato Se in chiesa spunta l’errore. Il declino dell’arte sacra, apparso il 21 ottobre scorso su Domani. Per lo storico e già direttore de L’Osservatore Romano, «il grottesco incidente della sigla P.M.A.X. si aggiunge alla stridente collocazione di ambone, candelabro e trono», nuove aggiunte che definisce «incongrue (…) di un livello certo non all’altezza dello scenario circostante» (benché, aggiungiamo, ci sia in giro molto di peggio). Interventi suggellati da quell’iscrizione «più surreale che maccheronica», che tradisce «la trascuratezza o la distrazione dei committenti, davvero imperdonabili».
Ed ecco il punctum dolens, evidenziato da Vian: «I maldestri interventi nella basilica liberiana sono l’ennesima manifestazione di un innegabile declino della committenza artistica, ma più in generale del livello culturale, nella Chiesa cattolica». Committenti ecclesiastici, specifichiamo, che in quanto tali dovrebbero essere provvisti di una conoscenza del latino quantomeno ginnasiale. Ma è innegabile che la lingua latina non sembri godere di grande simpatia né al di qua né al di là del Tevere (e nemmeno del Río de la Plata), parallelamente all’involuzione dei simboli ecclesiastici a livello commerciale o kitsch.
Un fenomeno risalente al post-concilio ma particolarmente intensificato negli ultimi anni, come attesta un elemento – apparentemente – marginale costituito da motti e stemmi di vescovi, abati e cardinali. Per chi non lo sapesse, il motto è una frase breve, lapidaria, scelta all’atto della nomina, che generalmente è tratta dalle Scritture o comunque sintetizza le aspirazioni spirituali del neoeletto e compare al di sotto dello stemma, solitamente – almeno finora – in latino. Per intenderci, il motto di mons. Luigi Negri era: «Tu, fortitudo mea»; Karol Wojtyla, Joseph Ratzinger e Jorge Mario Bergoglio scelsero, all’atto della nomina episcopale, rispettivamente: «Totus tuus», «Cooperatores veritatis» e «Miserando atque eligendo».
Le nuove generazioni di vescovi sembrano allergiche anche a quest’uso minimo – basic – della lingua della Chiesa, paradossalmente bistrattata proprio nell’epoca in cui non possiamo non dirci poliglotti (pensiamo a quante parole straniere sono entrate nell’uso comune anche solo in tempi recentissimi, da call a lockdown, passando per smartphone e follow up). L’America Latina appare sempre meno… latina, a partire dall’attuale prefetto del Dicastero per la Dottrina della Fede, Víctor Manuel Fernández, il quale, nominato vescovo di La Plata nel 2013, scelse: «En medio de tu pueblo» («In mezzo al tuo popolo»; v. immagine di apertura). L’immediato successore di Papa Francesco a Buenos Aires, Mario Aurelio Poli, nominato vescovo di Santa Rosa nel 2008, derogò al latino con: «Concédeme Señor un corazón que escuche» («Concedimi, Signore, un cuore che ascolti»). E l’attuale primate argentino, Jorge Ignacio García Cuerva ha scelto: «No apartes tu rostro del pobre» («Non distogliere il tuo volto dal povero»). «¡Ay de mí sino evangelizo!» («Guai a me se non evangelizzerò»), esclama il cardinale guatemalteco Álvaro Leonel Ramazzini Imeri (un precursore, risalendo la sua nomina episcopale al 1989). Tutte espressioni bibliche o spirituali, ma chissà che prima o poi qualcuno non si rifaccia pure allo storico slogan: «El pueblo unido jamás será vencido»?
Non solo il Sud America, anche l’Italia va perdendo confidenza con le proprie radici linguistiche. Mons. Francesco Manenti, vescovo di Senigallia (2015), sceglie: «È vicino a voi il Regno di Dio». «La gloria di Dio è l’uomo vivente», è il motto di mons. Antonio Mura, vescovo di Lanusei (2019), mentre quello del vescovo di Trento (2016), mons. Lauro Tisi, è: «Il Verbo si fece carne» (troppo difficile dire: «Gloria Dei vivens homo» o «Verbum caro factum est»?). L’italiano si trova pure a Bruxelles, con il neo-arcivescovo Luc Terlinden, il cui motto è: «Fratelli tutti» (è il caso di dire: un motto, un programma). A scanso di equivoci, volentieri concediamo l’eccezione al cardinale Ernest Simoni: «Zemra jeme do-të triumfojë» («Il mio Cuore trionferà»), la cui opzione per la lingua madre non è dovuta né a disprezzo né a ignoranza del latino (lingua in cui celebrava Messa a memoria nei lunghi anni di detenzione), ma a un comprensibile omaggio al suo tribolato popolo albanese e alla sua storia.
E veniamo agli stemmi, che l’istruzione – postconciliare! – Ut sive sollicite del 1969 raccomandava fossero disegnati «secondo le regole araldiche» (n. 28). Ci tocca ripartire da quello del card. Fernández, recante una croce e una colomba così minimal da ricordare un marchio commerciale più che uno stemma episcopale, o forse il logo di un ente umanitario. Insegna “commerciale” anche per Garcia Cuerva (non ci dilunghiamo: andatelo a vedere qui sopra). Torniamo ancora a mons. Antonio Mura, il cui stemma raffigura il Buon Pastore in versione innegabilmente fumettistica (a sinistra). Con il cardinal Ramazzini Imeri passiamo direttamente dal minimal al kitsch: un assemblaggio di foto (v. sotto) decisamente maldestro, che si direbbe realizzato con Paint (a questo punto, visto che lo stemma è concesso, non certo imposto, meglio non farlo). Deliberatamente non scomodiamo le «regole araldiche» ricordate da Ut sive sollicite (e comunque rispettate dalla maggioranza dei presuli), perché basterebbe quel sensus fidei anche estetico per capire che qualcosa non va.
Dettagli, certo, ma nella civiltà dell’immagine il mezzo è (anche) il messaggio: scelte modaiole o pacchiane vengono spacciate per povertà o semplicità; l’abbandono delle forme finisce per rendere indistinto il contenuto, così che “l’insegna” di una diocesi cattolica diventa poco distinguibile da quella «Ong piadosa», da cui pure Francesco aveva messo in guardia all’indomani dell’elezione al soglio pontificio. E infine il venir meno anche dei minimi residui di un depositum insieme linguistico, culturale e spirituale attraverso il quale i nostri avi hanno trasmesso la fede e che non è “mero” involucro da scartar via, ma è parte della multiforme bellezza scaturita dal cristianesimo che noi siamo ben lontani dall’eguagliare.
All’indomani del crollo del mondo antico furono proprio monaci ed ecclesiastici a raccoglierne i frammenti e farli risplendere di nuova luce, facendo dei monasteri e delle scuole cattedrali dei veri e propri centri di cultura e trasmissione del sapere. Pensiamo a cosa sarebbe stato della lingua latina e dell’eredità classica se avessero adottato lo stesso atteggiamento di sufficienza di alcuni ecclesiastici nostri contemporanei che si fanno un punto d'onore di abbandonare i cosiddetti "orpelli" per poi ritrovarsi a inseguire le mode: non è forse anche questa una forma di mondanità?
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