Quattro aspetti da chiarire sulla Messa in rito antico
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Lo status giuridico, il ruolo del sacerdote, l’importanza della Parola di Dio e il rapporto tra la riforma liturgica e la liturgia precedente. Riflessioni su pregi e limiti del Messale del 1962. Ma non sempre questi ultimi sono limiti assoluti.

Dopo la prima valutazione della volta scorsa, ecco le altre quattro da tenere presente sul VO (la Messa “prima del concilio”).
La Messa del VO (Messale 1962) non è mai stata abolita?
Così scrisse e disse Papa Ratzinger: il Messale del 1962 non fu «mai abrogato» (Summorum Pontificum, art. 1: EV 24,1108). Affermazione difficile da sostenere, poiché cozza contro il can. 20 del CJC: «La legge posteriore abroga la precedente (...) se lo indica espressamente (...) oppure riordina integralmente tutta quanta la materia della legge precedente» e il Vaticano II ha inteso proprio “riordinare integralmente” la liturgia e le singole celebrazioni: «la santa Madre Chiesa desidera fare un’accurata riforma generale della liturgia» (SC 21).
Se il Messale del 1962 non era mai stato abrogato, bisognava dargli un inquadramento nella attuale liturgia e Papa Ratzinger coniò la nuova categoria di espressione o forma ordinaria della preghiera della Chiesa (il Messale attuale) ed espressione o forma straordinaria della stessa (il Messale del 1962) (EV 24,1107). Anche questa seconda categoria risulta alquanto artificiale, tanto che Papa Francesco in Traditionis custodes l’ha eliminata stabilendo che gli attuali libri liturgici sono «l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano» (art. 1).
Tutto sarebbe stato molto più semplice se Benedetto XVI si fosse limitato a mettere in piedi delle norme giuridiche che regolamentassero l’uso del Messale precedente senza giustificarle con spiegazioni teoriche, perché queste ultime si prestano di più ad essere criticate e contestate. Così in genere agiscono gli uomini di governo. Ma Ratzinger, che era un intellettuale – anzi un professore –, non poteva resistere alla tentazione di spiegare... e con molta simpatia glielo perdoniamo.
Ciò significa che anche oggi la celebrazione in VO può senz’altro continuare, ma basandosi su di una concessione giuridica di fatto senza che i suoi sostenitori difendano categorie indifendibili. In fondo, se la legge della Chiesa ritiene il VO possibile e praticabile, è perché lo giudica in qualche modo utile e positivo o per lo meno non negativo e questo basta. Certamente resta vero che quanto «per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande» (Ratzinger, Lettera di accompagnamento a Summ. Pont.: EV 24/1134), ma questo vale come ascolto della tradizione e principio ispiratore, non come liceità di praticare forme rituali del passato e non solo del 1962, ma – perché no? – anche del II o III secolo o dell’anno 1000...
La Messa del VO nella forma semplice è soprattutto una Messa “per il prete” e un po’ meno “per il popolo”.
Ciò deriva dalla sua origine storica di Messa feriale per il Papa in un ambiente relativamente piccolo e con la presenza di alcuni della curia e quindi senza la necessità di coinvolgere il popolo. Ancora oggi ogni presbitero che celebra questa Messa può sperimentare che in un certo senso è “fatta per lui”, per plasmare i suoi sentimenti di fede e di adorazione attraverso una precisa ritualità e introdurlo sempre di più nel mistero. Questo non è tuttavia un limite assoluto, in quanto il prete celebrante a sua volta comunica ai fedeli uno stile. Ci ritorneremo.
La Messa del VO non ha una ritualità sufficientemente distinta per i due poli (Liturgia della Parola e Liturgia Eucaristica) e, soprattutto per il primo polo, è inadeguata.
Ciò deriva da quanto sopra, e cioè da essere soprattutto una “Messa per il prete”, che quindi legge all’altare Epistola e Vangelo dando le spalle al popolo. Anzi, storicamente nella Messa solenne con vari ministri prevalsero considerazioni allegoriche e si arrivò a leggere/cantare l’Epistola rivolti verso l’altare e dando le spalle al popolo in quanto l’Epistola e il lettore rappresentavano il Battista che annunciava Cristo simboleggiato dall’altare; a volte si arrivò a leggere/cantare il Vangelo contro la parete nord in quanto Cristo con la sua predicazione dirada le tenebre (cf. Mt 4,12-16).
In ogni caso, già prima della promulgazione del Messale “dopo il concilio” la Sacra Congregazione dei Riti in data 26.9.1964 aveva stabilito che «nelle Messe con partecipazione di popolo, le Letture, l’Epistola e il Vangelo si leggano o si cantino verso il popolo» (n. 49: EV 2/259). Poi, nello spirito di comprensione, Summorum Pontificum aveva stabilito che nel VO le letture “potevano” essere proclamate in lingua vernacola (Art. 6: EV 24,1117), mentre oggi Traditionis custodes stabilisce che “siano” proclamate in lingua vernacola (Art. 3, § 3).
Prima di diventare Benedetto XVI, il card. Ratzinger era già convinto di questo, e cioè che la liturgia cristiana dall’inizio aveva «due luoghi. Il primo è quello della liturgia della parola, al centro dello spazio, nel quale i fedeli sono radunati introno al bema, una sorta di tribuna su cui si trovavano il trono dell’Evangelo, il seggio episcopale e il leggio. La liturgia eucaristica vera e propria ha il suo luogo nell’abside, presso l’altare, che i fedeli circondano, rivolti tutti, con il celebrante, verso oriente, al Signore che viene» (J. Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia. San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, p. 69), per cui nella attuale riforma era importante «tornare a distinguere con chiarezza il luogo della liturgia della parola rispetto alla liturgia eucaristica vera e propria, dal momento che qui si tratta effettivamente di un discorso e di una risposta e, quindi, ha anche senso che stiano uno di fronte all’altro colui che annuncia e coloro che ascoltano» (p. 77).
Oggi nelle celebrazioni del VO si cerca in diversi modi di provvedere a quanto sopra. Con ciò non si vuol sostenere che bisogna stravolgere la ritualità del VO, ma semplicemente che quanto alla Liturgia della Parola bisogna essere coscienti dei limiti storici di tale ritualità e non proporla oggi come normale e ideale.
Non si può tornare indietro, però...
«Non possiamo tornare a quella forma rituale che i Padri conciliari, cum Petro e sub Petro, hanno sentito la necessità di riformare, approvando, sotto la guida dello Spirito e secondo la loro coscienza di pastori, i principi da cui è nata la riforma. I santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II approvando i libri liturgici riformati ex decreto Sacrosancti Œcumenici Concilii Vaticani II hanno garantito la fedeltà della riforma al Concilio» (Papa Francesco, Desiderio desideravi [29.6.2022], n. 61).
Verissimo, non si può tornare indietro ed è illusorio auspicare che la normalità di oggi sia il VO di ieri, per il fatto che l’attuale atto di trasmettere la tradizione implica anche di trasmettere il Vaticano II e quanto è maturato dopo.
Ciò detto, resta un però... La guida dello Spirito Santo, evocata sopra per i padri conciliari, e le approvazioni papali dei libri liturgici a garanzia della fedeltà al concilio non sono da mettere in dubbio, ma, soprattutto per la fase della riforma postconciliare, le approvazioni non bastano a garantire che si sia proceduto al meglio.
Il Vaticano II infatti stabilì che nella riforma della liturgia «le nuove forme scaturiscano in maniera in qualche modo organica da quelle già esistenti» (SC 23) e a questo punto ci si può domandare: quanto nelle nuove forme è scaturito dalle precedenti? quanto della Messa “prima del concilio” è passato nella Messa “dopo il concilio”? Certamente è passato quanto nella Messa c’è di essenziale e sostanziale e alcuni riti sono stati decisamente migliorati, non soltanto la Liturgia della Parola ma anche tanti altri, ad esempio l’incongruenza dell’Ite Missa est che precedeva la benedizione finale.
Ma resta un sospetto, e cioè che quanti hanno messo mano al lavoro di riforma, pur senza mai proclamarlo solennemente, adottassero il criterio della prima antichità come periodo aureo al quale, più o meno dall’età carolingia (sec. VIII in avanti) fosse succeduto un periodo di continua involuzione per cui bisognava espungere tutto ciò che si era introdotto nei termini di maggior simbolismo rituale ed espressivo/teatrale come inchini, baci all’altare, segni di croce, formule di adorazione che comprimevano troppo la bassezza umana ecc. Ovviamente la condivisione del criterio era di diverso grado negli interessati e alla fine si riconosceva che non proprio tutto era negativo, però...
Bisognerebbe invece ribaltare il criterio e considerare se un certo stile e certi riti entrati dopo la prima antichità non siano stati invece una maturazione provvidenziale, ad analogia del pensiero greco e del diritto romano che entrarono nel pensiero e nell’agire della Chiesa. Ovviamente tutto questo da non accettarsi al 100%, ma con un discernimento variabile, che però non comporti una pregiudiziale svalutazione. Il che significa che si potrebbe immaginare – sognare? – l’attuale Messa della riforma postconciliare al cui interno certe formule e certi riti del VO potrebbero essere recuperati. Quali? Alla prossima.
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