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ORA DI DOTTRINA / 41 - IL SUPPLEMENTO

Newman, conversione come cammino di fedeltà alla verità

La "prima" conversione di san John Henry Newman consiste in una liberazione dalla grave malattia del liberalismo, che cercherà di combattere per tutta la sua vita. È la scoperta di una Persona viva che lega l'esigenza della verità e l'esigenza morale. Non c’è fede vissuta che non porti all’adesione del dogma, scoperto, riconosciuto, approfondito giorno dopo giorno.

Catechismo 16_10_2022
L'immagine di san John Henry Newman esposta il giorno della sua canonizzazione

Thomas Howard, cui abbiamo dedicato il supplemento dell’Ora di Dottrina per diverse domeniche, ha percorso con coraggio la strada che lo ha condotto dall’evangelicalism all’anglicanesimo e da quest’ultimo al cattolicesimo. Un sentiero angusto, divenuto, se non un’autostrada agevole, almeno una via ben tracciata dalla vita e dall’insegnamento di San John Henry Newman.

Nessuno può muovere i passi al posto nostro; eppure, è possibile aprire nuovi sentieri, che altri, con i propri sforzi e l’aiuto della grazia, percorreranno, riconoscendone la bellezza, la sicurezza, la capacità di condurre alla meta. Così accade nell’alpinismo: molti, senza neppure saperlo, percorrono in sicurezza vie d’ascensione che furono aperte prima che loro fossero al mondo da alcuni abili e coraggiosi pionieri. Newman fu (anche) questo.

«Io ho la mia missione, sono un anello in una catena, un vincolo di connessione fra persone. Egli non mi ha creato per niente», scriveva Newman. Non aveva un’etichetta per definire questa missione; non se l’era assegnata da se stesso, così da poterla comprendere pienamente. Era però certo che, muovendo un passo dopo l’altro nella direzione del vero conosciuto e del bene desiderato, questa missione si sarebbe realizzata a gloria di Dio e a vantaggio di molti. Nessuna preoccupazione su come piazzare il proprio prodotto sul mercato della fede: tutto il suo spirito, la sua anima, il suo corpo erano assorbiti dallo sforzo di non perdere mai di vista la “luce gentile” che lo conduceva. Dove, egli lo ignorava: come Abramo, che lasciò la sua terra senza sapere dove andava; o come i Magi che seguirono la stella, senza sapere in quale preciso luogo si sarebbe posata.

Una tappa tanto importante di questo suo percorso fu quella che egli stesso battezzò come la sua “prima conversione” nel 1816. Una crisi di liquidità mise a dura prova le banche inglesi, di cui il padre, John Newman, era socio. Questo comportò tensione, preoccupazione ed alcuni cambiamenti “logistici” nella famiglia Newman. John Henry dovette trascorrere l’estate da solo nel college di Ealing. Lui e il professor Walter Mayers, alle cui particolari cure era stato affidato.

Newman sintetizzerà questa sua prima conversione come l’essere piombato «sotto l’influenza di un credo definito» e come se nella propria intelligenza siano state impresse «delle impronte del dogma che, per grazia di Dio, non si sono mai cancellate né oscurate». E ciò, secondo quanto egli confida nell’Apologia, avvenne soprattutto a causa delle letture che il reverendo Mayers gli suggerì. Louis Bouyer, nella sua biografia dedicata a Newman (Newman. Sa vie. Sa spiritualité, Cerf 2014), si domanda come queste letture di autori evangelical e calvinisti abbiano potuto avere un tale impatto, se poi, il contenuto di questi stessi libri verrà abbandonato da Newman ben prima del suo approdo alla Chiesa cattolica.

In quell’anno 1816, l’incertezza economica della famiglia, la solitudine, e la malattia, che gli fecero vivere lo spavento per la «pesante mano divina che si era abbattuta» su di lui, avevano creato una condizione per cui il giovane Newman, da un ideale di vita che faceva perno soprattutto su una rettitudine morale ottenuta con i propri sforzi e relegava sullo sfondo la religione, lo mise a tu per tu con Dio. Nell’Apologia questa condizione è espressa con una frase divenuta famosa: «riposare nel pensiero di due esseri, entrambi unici, supremi, entrambi testimoniati da un complesso di prove abbaglianti: io e il mio Creatore».

Ma cosa c’entra questo con l’impressione del dogma e di un credo ben definito nella sua anima? Newman viene “guarito”, all’età di quindici anni, dalla grave malattia del liberalismo, che cercherà di combattere per tutta la sua vita. E viene guarito tramite un’esperienza profonda, che lega il piano esistenziale, morale e dogmatico. Secondo Bouyer, «il Dio che gli si è rivelato nella solitudine, è il Dio di un dogma per la prima volta chiaramente definito, perché è il Dio della Parola divina». Quella parola che aveva imparato a conoscere fin da bambino, ma che ora gli si presentava come Persona viva, era una parola che legava, secondo lo stesso teologo francese, «l’esigenza della verità e l’esigenza morale». Newman è stato, per così dire, vaccinato dalla lebbra del nostro tempo: l’esperienza di Dio non avviene nonostante il dogma; l’esigenza morale non vive accanto a o a prescindere dall’esigenza della verità; la verità non è la versione arida ed intellettualistica della fede, che, al contrario, sarebbe un rapporto con Dio svuotato di contenuto. Tutti sofismi che sentiamo ripetere in continuazione, persino dai vertici della gerarchia. Per lui, scrive ancora Bouyer, «scoprire Dio come il Creatore dell’anima» significa «accettare non come delle idee astratte, ma come dei fatti vitali, i grandi dogmi dell’incarnazione e della redenzione, dominati dalla rivelazione della Trinità».

Tra gli autori letti in questa intensa estate c’era Thomas Scott, che nel libro autobiografico The Force of Truth (1779), aveva descritto il suo cammino di conversione. Newman deve molto a questo ecclesiastico, al punto che nell’Apologia afferma di essergli «quasi debitore della mia anima». Che cosa aveva trovato in questo predicatore anglicano? «Scott seguì la verità dovunque essa lo portasse, cominciando dall’unitarianismo per finire in un’ardente fede nella santissima Trinità. Fu lui che per primo piantò profondamente nell’anima mia questa verità fondamentale della religione», spiega nell’Apologia. Il cammino verso Dio è il cammino di fedeltà alla verità, qualunque cosa essa comporti, resistendo alla tentazione di adeguare la verità alle nostre “esigenze” esistenziali. Non c’è fede vissuta che non porti all’adesione del dogma, scoperto, riconosciuto, approfondito giorno dopo giorno.

Durante la veglia di preghiera che aveva preceduto la beatificazione, il 18 settembre 2010, Benedetto XVI aveva così riassunto quell’esperienza interiore che l’appena quindicenne John Henry visse in un momento di solitudine: «Fu un’esperienza immediata della verità della Parola di Dio, dell’oggettiva realtà della rivelazione cristiana quale era stata trasmessa nella Chiesa [...].  Alla fine della vita, Newman avrebbe descritto il proprio lavoro come una lotta contro la tendenza crescente a considerare la religione come un fatto puramente privato e soggettivo, una questione di opinione personale».

Quasi alle soglie degli ottant’anni di vita, in occasione della sua elevazione alla dignità cardinalizia, Newman poteva scrivere con maggior cognizione di causa (nel famoso Biglietto “Speech”) quanto aveva sperimentato in nuce nella sua “prima conversione. Ribadiva, ancora una volta, che la grande peste del nostro tempo è «lo spirito del liberalismo nella religione». Una peste che combatte ogni dogma, affermando però i propri, rigidi ed indiscutibili: «La religione rivelata non è una verità, ma un sentimento e una preferenza personale […]; ed è un diritto di ciascun individuo farle dire tutto ciò che più colpisce la sua fantasia. La devozione non si fonda necessariamente sulla fede […] Si può fraternizzare e avere pensieri e sentimenti spirituali in comune, senza nemmeno porsi il problema di una comune dottrina o sentirne l’esigenza».