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parlano i famigliari

Le ragioni delle vittime alla base dell'inchiesta covid

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Mentre il tribunale dei ministri archivia le accuse al governo Conte II, la procura di Roma iscrive nel registro degli indagati gli ex ministri della Sanità per non aver aggiornato il piano pandemico. Ma è dalle storie dei famigliari delle vittime che hanno fatto partire l'indagine della procura di Bergamo, che si comprende la catena di errori e ritardi nella gestione della pandemia. Parla alla Bussola l'avvocato Locati, figlia di una delle 87 vittime agli atti. 

Attualità 09_03_2023

Inchiesta covid, dare la parola alle vittime è il primo passo per fare verità. Come era prevedibile è partita la corsa ai distinguo nell’ambito dell’inchiesta Covid che la Procura di Bergamo ha concluso nei giorni scorsi. Il tentativo è quello di giustificare l’impressionante catena di errori, sottovalutazioni e ritardi che emerge dalle carte, ad opera dei vertici dell’amministrazione regionale lombarda e del governo di allora. A gettare acqua sul fuoco ci pensano anche molte virostar. Matteo Bassetti, ad esempio, ha minimizzato l’inchiesta “assolvendo” da subito le istituzioni perché «all’epoca si brancolava nel buio».

È di ieri poi la notizia dell’iscrizione nel registro degli indagati di Roberto Speranza e i suoi predecessori Giulia Grillo e Beatrice Lorenzin per omissione in atti d'ufficio. Si tratta di uno stralcio romano dell'inchiesta di Bergamo. Gli ex ministri della Salute, più altri dieci dirigenti, sono indicati come «responsabili dell’omessa istituzione e del rinnovo del Comitato Nazionale per la pandemia». Nel frattempo, però, una doccia gelata è arrivata dal tribunale dei ministri, che ieri ha archiviato l'accusa di omicidio colposo plurimo per Conte, Speranza e tutto il governo di allora perché «in nessun modo l’epidemia può dirsi provocata dai rappresentanti del governo. Per verificare la colpevolezza si dovrebbe conoscere la genesi del contagio delle singole vittime e stabilire al di là di ogni ragionevole dubbio che misure di contenimento che non siano state adottate dal Governo o disposte in ritardo avrebbero evitato il contagio o l’esito leale». Si tratta di un'inchiesta partita da Asia Usb nel 2021 e non riconducibile a Bergamo, ma il giudizio del tribunale dei ministri pesa comunque su futuri procedimenti quando arriveranno, come l'inchiesta di Bergamo. 

Resta in piedi dunque l'inchiesta di Bergamo. Ma sono in pochi quelli che vogliono davvero capire perché questa inchiesta è partita. Per farlo bisogna dare voce alle vittime di questa tragedia. Sono pazienti a cui il covid è stato diagnosticato in ritardo o che sono morti perché per loro non si è trovato un ventilatore. Altri si sono contagiati in luoghi che dovevano essere da tempo controllati o dotati di dispositivi che non sono mai arrivati. Contagiati che non dovevano contagiarsi se solo la politica avesse introdotto quelle misure di prevenzione e contenimento, che, anche se incomplete visto il piano pandemico non aggiornato dal 2006, avrebbero per lo meno ridotto l’esposizione al virus e la conseguente morte.

Tutti, dopo il contagio, lasciati in vigile attesa secondo un preciso pseudo-protocollo di abbandono terapeutico che li ha fatti arrivare all’ospedale troppo tardi. A loro, spesso non è data parola, eppure è grazie alla caparbietà dei famigliari se il Procuratore di Bergamo ha potuto imbastire la prima inchiesta giudiziaria sulla gestione del covid.

L’ultima parola spetta ovviamente alla giustizia, ma fin da subito si può dire che i morti della bergamasca rappresentano la parte offesa dell’inchiesta e hanno costretto i vertici dello Stato e della Regione, per lo meno a doversi giustificare delle loro azioni e decisioni.

Nell’inchiesta sono 87, ma la Procura aveva ricevuto 150 esposti depositati dal comitato noidenunceremo, poi scioltosi e confluito in un’apposita associazione di famigliari vittime del covid.

Consuelo Locati (in foto) è avvocato e doppiamente coinvolta in questa tragedia. È uno dei legali dei famigliari vittime covid 19 riuniti nell'associazione #sereniesempreuniti. Suo padre Vincenzo è una delle vittime sulla cui morte la Procura ha acceso un faro con questa inchiesta. È morto il 27 marzo 2020 alla clinica Gavazzeni di Bergamo dopo giorni di sofferenza e adesso a farsi carico di quel calvario ingiustificato è la figlia. Alla Bussola che l’ha incontrata ha spiegato che «la Procura di Bergamo ha acquisito anche tutte le cartelle cliniche dei pazienti per mostrare la catena di errori e ritardi di cui sono stati vittime». 

«Tutti chiedevano saturimetri, che non si reperivano – spiega - così come non si trovavano bombole d’ossigeno. C’è stato anche chi è morto senza trovare posto in pronto soccorso e chi ha potuto utilizzare il casco e chi invece no».

Locati spiega che «molti rimanevano in casa anche per quattro, cinque o anche dieci giorni cercando di arrangiarsi per salvarsi, invece di essere portati in ospedale anche perché non dimentichiamo che il numero 1500 consigliava di tenerli in casa. Ci dicevano di stare a casa con Tachipirina e vigile attesa e i tamponi spesso non venivano fatti».

È nel racconto del calvario del padre che il racconto di Locati acquista maggiore drammaticità: «Papà si contagia durante alcuni esami di accertamento che vengono fatti nel febbraio 2020, inizia ad avere problemi renali e viene ricoverato il 9 marzo all’ospedale di Lovere che non era ancora sovraccaricato di casi covid. Viene curato per i problemi renali ma non viene tamponato né all’ingresso né all’uscita e quando arriva a casa comincia ad avere problemi di dissenteria, inappetenza e difficoltà di respirazione». Trovare un respiratore è un miraggio: «Dato che ero in isolamento anche io, ho dovuto pagare un autista per recuperare una bombola d’ossigeno fuori provincia di Bergamo». Prosegue per alcuni giorni così. Scopre di avere il covid soltanto il 22 marzo quando arriva ormai sfinito alla clinica Gavazzeni di Bergamo con la saturazione al 70%. Muore il 27 marzo per polmonite bilaterale.

Di storie come questa il faldone dei pm di Bergamo è pieno.

«Regione e Governo continuavano a ripetere di essere pronti invece non era vero e nessuno lo ha ammesso. La procura ha così colmato un vuoto di memoria, ma ha analizzato a 360 gradi quello che emergeva non dalle parole, ma dai documenti e ha saputo dare le risposte per dare una spiegazione di quello che è successo».

Il punto è l’assenza di un piano pandemico e la mancata zona rossa in Val Seriana dove si stava verificando già dal 27 febbraio un cluster ingente di contagiati. Ma che cosa avrebbe potuto fare, almeno, il vecchio piano pandemico anche se non aggiornato? «Poteva essere eseguito già dal 5 gennaio, per rispondere immediatamente all’emergenza, introducendo quello che è previsto: scorte di Dpi, di mascherine, di tamponi e reagenti, di camici; e poi ancora: un’implementazione dei laboratori per processare i tamponi, una ricognizione del numero di posti letto e di quelli in terapia intensiva e subintensiva. Nonostante il mancato aggiornamento, il piano pandemico avrebbe potuto comunque fare molto per frenare il contagio».

Il resto è storia e come si dice in queste occasioni, scaricabarile. Come quello del presidente dell’Iss, l’Istituto Superiore di Sanità, Silvio Brusaferro, il quale ha detto di non aver mai saputo dell’esistenza di un piano pandemico.

«Bisognerebbe ringraziare la Procura di Bergamo che ha avuto il coraggio di continuare ad analizzare tutto evidenziando responsabilità in capo a 19 persone, che adesso dovranno rispondere delle loro azioni. È proprio perché da parte delle istituzioni c’è stato questo scaricabarile che ci siamo rivolti alle autorità giudiziarie perché, lo ricordo, sul caso pende anche una causa civile al tribunale di Roma e lì siamo in 650».

In conclusione, chiediamo all’avvocato Locati se non tema una conclusione all’italiana, con la fine del procedimento a “tarallucci e vino”. «Non ho paura di questo, so per certo che quello che è emerso è una verità storica e questa verità non potrà smontarla mai nessuno».