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le tracce di Dio

Le nuove norme sulle apparizioni fanno a pezzi l'apologetica

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Il documento presentato il 17 maggio è in chiara discontinuità con l'atteggiamento che la Chiesa ha sempre avuto nei confronti dei fenomeni soprannaturali. Le nuove norme negano la possibilità di riconoscere le tracce dell'intervento di Dio nella storia degli uomini.

Ecclesia 23_05_2024 English Español
IMAGOECONOMICA - ANDREA PANEGROSSI

Le nuove norme sulle apparizioni mariane presentate lo scorso 17 maggio, costringono a riprendere in mano l'atteggiamento tradizionale della Chiesa davanti a fenomeni soprannaturali per comprendere se tali norme siano o meno in continuità. Da sempre, si sa che in questo campo l'atteggiamento della Chiesa è all'insegna della prudenza. D'altra parte, abbiamo gli imperativi dell'apostolo Paolo: «Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie; esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono» (1Ts 5, 19-21). Si tratta di due aspetti complementari: la prudenza è precisamente a servizio dell'esortazione paolina, vale a dire che la Chiesa è chiamata ad esaminare ogni cosa, per arrivare quanto più possibile alla certezza morale se un certo evento sia effettivamente manifestazione dello Spirito.

Da sempre l'atteggiamento della Chiesa è stato appunto quello di osservare, esaminare, vagliare, per giungere ad un giudizio positivo o negativo circa la possibile origine soprannaturale di determinati fenomeni. Una certa sistematizzazione di questi criteri fu opera di importanti teologi del XV secolo, come il domenicano cardinale Juan de Torquemada, e del Doctor Christianissimus, Jean de Gerson. Sembra che ad aver acceso l'interesse teologico per l'argomento dei fenomeni soprannaturali sia stata la decisione del (discusso) Concilio di Basilea di porre sotto esame le famose Rivelazioni celesti di Santa Brigida di Svezia.

Due concili ecumenici successivi, il Lateranense V (1512-1517) e il Tridentino (1545-1563) esprimeranno che spetta al Vescovo competente agire e pronunciarsi in modo definitivo su eventuali fenomeni soprannaturali, servendosi dell'aiuto di alcuni uomini «docti et gravi» (Lateranense) e «theologi et pii» (Tridentino). Si tratta di un duplice principio – competenza del vescovo e ricorso ad esperti – che garantisce da un lato la dimensione della comunione gerarchica, dall'altra la necessaria scienza e competenza per giungere ad un giudizio che si avvicini quanto più possibile alla certezza morale. Rimane la cosiddetta “riserva apostolica”, ossia la possibilità di intervento della Sede Apostolica, anche senza il consenso del Vescovo.

Il XVI secolo ha poi conosciuto lo straordinario apporto di mistici come santa Teresa d'Avila, san Giovanni della Croce, sant'Ignazio di Loyola, che hanno arricchito di criteri più fini il discernimento relativo a presunti fenomeni soprannaturali. I secoli successivi hanno visto sorgere importanti trattati teologici, tra i quali spicca il De discretione spirituum del cardinale Giovanni Bona, e soprattutto l'opera del cardinale Prospero Lambertini, futuro Benedetto XIV, sia la monumentale De servorum Dei beatificatione, che l'opera, ormai dalla critica a lui attribuita e da qualche giorno finalmente disponibile in edizione critica, Notæ de miraculis.

Si giunge quindi alle Normæ del 1978, le quali compendiano il lungo sviluppo storico tracciato, enumerando alcuni criteri positivi e negativi avvalendosi dei quali l'Ordinario possa giudicare del fatto attenzionato, le relazioni con la Conferenza episcopale di riferimento e con la Congregazione per la Dottrina della Fede. Le Normæ succitate servivano per «giudicare, almeno con una certa probabilità» circa la possibile origine soprannaturale del fenomeno interessato.

Il documento del 1978 già aveva ben presenti l'odierna rapidità di diffusione di notizie relative ai presunti fenomeni, così come «la mentalità odierna e le esigenze scientifiche e quelle proprie dell'indagine critica» che «rendono più difficile, se non quasi impossibile, emettere con la debita celerità i giudizi che concludevano in passato le inchieste in materia». Ma è proprio per queste sopraggiunte difficoltà che erano state emanate le Normæ, per giungere «alla luce del tempo trascorso e dell'esperienza, con speciale riguardo alla fecondità dei frutti spirituali» ad, «esprimere un giudizio de veritate et supernaturalitate, se il caso lo richiede».

Il lettore perdoni il lungo excursus, necessario però per comprendere la direzione della Chiesa in questa materia: massima prudenza, senza aver fretta di pronunciarsi in un modo o nell'altro, ma anche apertura a riconoscere la presenza dello Spirito, mediante l'attestazione di elementi che fanno appello alla ragionevolezza dell'uomo, capace di giungere ad un giudizio altamente probabile e ad una certezza morale.

Sullo sfondo di tutto questo sviluppo storico si può identificare proprio questo punto fermo: la Chiesa ha la consapevolezza della capacità della ragione umana di cogliere i segni del soprannaturale. Questo principio è alla base della credibilità della Persona stessa di Gesù Cristo, del Vangelo e dell'evangelizzazione. L'apostolo Pietro, il giorno di Pentecoste, rivolgendosi ai Giudei, qualificò il Signore Gesù come l'«uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni» (At 2, 22); Dio accreditava anche l'operato degli stessi Apostoli per mezzo di «molti segni e prodigi» (At 5, 12). Il miracolo, l'evento soprannaturale è una specie di “firma di Dio”, che l'uomo è in grado di saper decodificare, indizio che Dio offre precisamente alla ragione dell'uomo, perché ne possa riconoscere l'origine. Tutta l'azione profetica, di Cristo stesso e degli Apostoli è basata precisamente su questo principio: l'uomo è in grado non di conoscere direttamente il soprannaturale, ma di identificarne i segni, le tracce, così da riconoscere l'impronta di Dio e aprirsi ad accoglierne l'azione e il messaggio.

Ora, che cosa troviamo nelle Nuove Norme? Il cardinale Fernández ha provato a giustificare il nuovo documento con la necessità di una maggiore prudenza da parte della Chiesa, in ragione della confusione generata dall'azione di alcuni vescovi e da pronunciamenti contraddittori. Ma la verità è che il problema non si colloca nella carenza di norme o nella loro oscurità, ma più semplicemente nell'azione imprudente di singoli prelati; tant'è vero che le Nuove Norme riprendono sostanzialmente i criteri del documento del 1978. Se il problema fosse dunque quello della prudenza, il documento sarebbe inutile.

La vera novità del documento sta invece nel fatto che d'ora in avanti verrà preclusa la possibilità di esprimersi positivamente quanto alla soprannaturalità di un evento, ma ci si dovrà limitare, al massimo, ad un nihil obstat; il caveat presente nell'art. 22 §2 esprime questa novità: anche nel caso del nulla osta, «il Vescovo diocesano presterà attenzione (...) a che i fedeli non ritengano nessuna delle determinazioni come un’approvazione del carattere soprannaturale del fenomeno». Il concetto è stato ribadito da Fernández in Conferenza Stampa, rispondendo ad una domanda della giornalista Diane Montagna; giustificandosi con il fatto che occorre limitarsi ad una decisione prudenziale, il cardinale ha affermato che «non si può chiedere una dichiarazione dell'origine soprannaturale per decidere in questo caso, precisamente perché il rischio di dichiarare [un fenomeno] come soprannaturale è quello di dare piena certezza. In modo che, in ultima analisi, non si possa più dubitare».

Ora, anche i sassi sanno che quando un vescovo si esprime favorevolmente circa la soprannaturalità di un'apparizione o di un miracolo, ed anche quando lo dovesse fare un papa, né intende né può vincolare la coscienza dei fedeli, quasi stesse insegnando un dogma o una verità de fide tenenda. Si è sempre trattato di un giudizio prudenziale, anche quando ci si esprimeva con un constat de supernaturalitate, il cui massimo grado di assenso è la certezza morale, non la certezza assoluta di un atto di fede. Tant'è vero che l'opposizione al giudizio autorevole del vescovo in tale materia di per sé significherebbe al massimo temerarietà, non eresia o scisma.

Il contenuto specifico del documento è pertanto ben altro: la negazione che la Chiesa abbia i mezzi per poter portare su un evento un giudizio di probabilità o di certezza morale circa la sua origine soprannaturale; ma come dare credito alla Chiesa che annuncia il miracolo della guarigione dell'idropico da parte del Signore, o dello storpio da parte di Pietro e Giovanni, se quella stessa Chiesa oggi ci dice che in sostanza non è possibile dire alcunché circa la soprannaturalità di un evento? Perché il punto in questione non è ciò che è oggetto di fede e ciò che non lo è, ma la capacità di esprimersi sulla credibilità di un fatto. Al netto delle molteplici differenze a riguardo tra i teologi, la linea che il Dicastero sta portando avanti appare del tutto nuova nella storia della Chiesa: sacrificare la credibilitas, per salvaguardare la credentitas, ossia rinunciare a pronunciarsi sulla soprannaturalità di un fatto per custodire l'atto di fede. Il cruccio di Tucho, come afferma nella Presentazione delle Nuove Norme, è che l'approvazione di alcune rivelazioni conduca ad apprezzarle «più dello stesso Vangelo»; ergo, meglio non dare segni di approvazione, ma solo di concessione.

L'esperienza è però diversa e considera le ragioni di credibilità un ausilio all'atto di fede vero e proprio e non un ostacolo. Lo si osserva quotidianamente nelle nostre chiese e nella pratica del popolo di Dio: se certe apparizioni mariane, come Lourdes, Fatima, Guadalupe, non fossero state accolte dalla Chiesa, la vita cristiana del popolo e la frequenza dei sacramenti sarebbe persino peggiore di quanto già non sia. La forza dei segni di credibilità dei miracoli eucaristici o delle apparizioni, emersi proprio grazie alla prudente e talvolta diffidente indagine dei vescovi, ha sempre sostenuto la fede delle persone, specie nei momenti di oscurità. Altro che ostacolare la fede.

La sensazione è che Tucho sia del tutto condizionato da quella corrente che da svariati decenni ha polverizzato l'apologetica, creando non un salto ma un vuoto tra le esigenze della ragione e l'atto di fede, sostenendo una sostanziale impossibilità di riconoscere con certezza (morale) le tracce degli interventi di Dio nella storia degli uomini.

 



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