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1915-2015

La Turchia ricorda gli armeni, ma nega il genocidio

Il premier Davutoglu parla di "condivisione delle sofferenze degli armeni" e annuncia la celebrazione delle vittime, il prossimo 24 aprile, anche a Istanbul. La Turchia ammette l'esistenza storica del genocidio? Niente affatto. E intanto il Gran Muftì riprende gli attacchi contro Papa Francesco.

Esteri 22_04_2015
Papa Francesco e il Gran Muftì turco

Strane dichiarazioni ambivalenti giungono dalla Turchia. Mentre il Gran Muftì Mahmet Gormez, massima autorità musulmana sunnita turca, torna a condannare le parole di Papa Francesco sul genocidio degli armeni, il premier Ahmet Davutoglu annuncia solennemente che, per la prima volta nella storia, a Istanbul si celebreranno le vittime armene, il 24 aprile, il giorno della celebrazione del genocidio.

A giudicare dalla differenza di toni e contenuti, sembrerebbe che autorità religiose e politiche siano su poli opposti. Ma non ci si deve far trarre in inganno. Il premier Davutoglu, infatti, non intende affatto sdoganare la memoria del genocidio. Definire con quel termine lo sterminio degli armeni, infatti, è ancora illegale in Turchia, un reato punito dall’articolo 301 del Codice Penale (“vilipendio all’identità nazionale”), con pene detentive che vanno dai 6 mesi a 2 anni. I turchi, però, non da oggi, ma da sempre, ammettono che vi furono molte vittime armene nel 1915 e 1916. Le spiegano in altro modo e, finora, non ne hanno mai celebrato la memoria. Le dichiarazioni di Davutoglu, dunque, rischiano di essere il classico “specchietto per le allodole”.

In primo luogo c’è da dire che le parole di Papa Francesco e la sproporzionata indignazione turca hanno subito innescato una spirale di reazioni in Europa e non solo. La Germania, che ha da sempre buoni rapporti con Ankara (anche in forza della grande comunità di immigrati turchi che ospita nelle sue città), fino a questo momento non aveva riconosciuto ufficialmente il genocidio, ma la settimana scorsa ha invertito la rotta e venerdì 24 aprile, salvo imprevisti, il parlamento tedesco pronuncerà anch’esso la parola “proibita”: genocidio. Lo fa in modo indiretto, cercando di non irritare troppo Ankara, con una risoluzione che per ora (è ancora una bozza), recita: “Il destino degli armeni durante la Prima Guerra Mondiale è esemplare della storia dei crimini di massa, delle epurazioni etniche, delle espulsioni di popolazione e dei genocidi del Ventesimo Secolo”. La parola genocidio c’è, ma non direttamente riferita agli armeni, per i quali, con un certo sollievo di Erdogan e Davutoglu, si può parlare anche di “crimine di massa”, “epurazione etnica” o “espulsione della popolazione”. Sono tutti eufemismi, perché per “genocidio” non si intende necessariamente l’uccisione di tutti (dal primo all’ultimo) i membri di un popolo, ma anche la loro espulsione dal territorio d’origine, o anche il tentativo di cancellarne l’identità culturale.

L’Europarlamento si è già espresso in merito, sostenendo le parole del Papa e condannando la reazione turca. Con una risoluzione, votata a gran maggioranza, ha condannato ogni negazionismo del genocidio e ha proposto l’istituzione di una giornata internazionale per la memoria delle vittime. Il governo turco, a quel punto, ha protestato anche contro l’Europarlamento, ma ora si attende un’altra presa di posizione: quella degli Stati Uniti. Nonostante fosse proprio l’ambasciatore Henry Morgenthau a Costantinopoli, nel 1915, a denunciare per primo l’inizio dell’eccidio e nonostante la diaspora armena negli Usa sia una delle più numerose, Washington, nel nome dell’alleanza con Ankara, hanno finora evitato di irritare i governi turchi. Per il 24 aprile ci si aspetta, però, che il presidente Obama denunci il genocidio, chiamandolo per quel che è. La stampa turca è in trepida attesa di questo momento.

In un contesto del genere, è chiaro che il premier di Ankara voglia correre ai ripari preventivamente, ammettendo una qual certa colpa storica turca e cercando di placare la protesta internazionale prima che diventi troppo grande. Ma lo fa con una formula che ribadisce, ancora una volta, il classico negazionismo turco. Dice, infatti: “Ridurre tutto a una sola parola (genocidio, ndr), attribuire tutta la colpa alla sola nazione turca attraverso generalizzazioni, è legalmente e moralmente problematico”. Poi, per smorzare la polemica ancora una volta, aggiunge: “Ancora una volta ricordiamo, con rispetto, e condividiamo il dolore dei figli e dei nipoti degli armeni ottomani che hanno perso la vita nel corso delle deportazioni del 1915”. Ma di cosa sta parlando, allora? Secondo la storia ufficiale turca, quella che si può scrivere senza finire in galera, non c’è stato un genocidio, ma una “guerra civile”. Un po’ come se i tedeschi di oggi parlassero di una “guerra civile tedesco-ebraica” del 1939-45 invece che di Shoah. Solo secondo la storiografia turca, in questa “guerra civile” le vittime sarebbero state equamente distribuite da entrambe le parti: meno di mezzo milione di armeni contro circa mezzo milione di turchi. Ovviamente questa visione della storia è completamente falsa e indimostrabile. Episodi sporadici di resistenza armena vi furono, come nei casi di Zeitun, Van, Urfa, Shabin-Karahisar e nel Mussa Dagh. Ma si trattò di nuclei di uomini armati, sfuggiti allo sterminio, che ressero disperatamente contro forze turche preponderanti. Le vittime del genocidio armeno furono circa 1 milione e 400mila. I caduti turchi nelle azioni armate contro i resistenti armeni, ammontano a poche migliaia.

1915, resistenza armena a Van

Come nacque la leggenda della “guerra civile”? Venne diffusa dall’Impero Ottomano fin dall’inizio del genocidio. Sin dall’ingresso dell’Impero in guerra nel novembre del 1914, gli armeni vennero dipinti dalla propaganda ottomana come una minoranza sovversiva, pronta a pugnalare alle spalle l’esercito. Anche quei volenterosi che lavoravano per l’esercito, allestendo ospedali con soldi propri per accogliere i feriti di guerra, furono accusati di tradimento, arrestati e i loro beni confiscati. Anche coloro che, fino a quel momento, avevano combattuto nelle file dell’esercito regolare, vennero separati dagli altri commilitoni e assassinati: 200mila coscritti vennero sommariamente eliminati in questo modo. Quando il genocidio entrò nella sua fase “calda”, nell’aprile del 1915, la macchina della propaganda turca lavorò incessantemente per spacciarlo come guerra civile, un movimento sovversivo armeno. Migliaia di cadaveri di armeni vennero rivestiti con uniformi turche, fotografati e spacciati come caduti in battaglia nella fantomatica guerra civile, come poté testimoniare anche Rafael De Nogales, un volontario venezuelano che divenne ispettore generale delle truppe ottomane in Armenia. Riconoscere l’identità cristiana o musulmana fu reso fisicamente impossibile: le vittime vennero evirate in gran numero, per non poter più verificare se fossero circoncisi (dunque musulmani) o no.

Quanto alle marce della morte, in cui un milione e mezzo di civili, soprattutto donne, vecchi e bambini, venne deportato a piedi verso le regioni desertiche della Siria orientale, i turchi le spiegano come “trasferimenti”, più raramente come “deportazioni”, come ha appena fatto Davutoglu, ma mai come un metodo di sterminio. Quale invece era: di coloro che partivano alla volta della Siria, nessuno tornava vivo. Chi era “fortunato” moriva sgozzato da paramilitari turchi o da guerriglieri curdi aizzati dal governo e attratti dal bottino delle vittime. Chi fu sufficientemente forte da arrivare vivo fino alla provincia di Deir Ezzor, in Siria orientale (la stessa che ora è occupata dall’Isis), morì di stenti nei campi di concentramento, che erano veri e propri campi di sterminio nel deserto. Nelle grandi marce della morte sopravvisse, stando alle fonti di allora, sopravvisse solo 1 deportato su 10. “Dopo ispezioni è stato confermato che il 10% dei deportati armeni ha raggiunto il luogo di esilio. Il resto è morto durante il percorso – scriveva in un telegramma del 10 gennaio 1916 il vicedirettore generale dei campi profughi – Siete informati che simili risultati sono stati ottenuti con l’uso di metodi severi contro i sopravvissuti”.

1915, deportazione di armeni

L’ammissione di una “sofferenza” degli armeni, dunque, non deve trarre in inganno. Quel che interessa realmente ad Ankara, salvo svolte future, fino a questo momento è la negazione della natura genocida di queste sofferenze. Ammettere il genocidio vorrebbe dire ammettere anche l’assunzione di tutta la responsabilità, politica e giuridica, di un reato che non cade in prescrizione. E il governo turco non ha mai rotto col passato regime dei Giovani Turchi: in un certo qual senso, si ritiene suo erede legittimo. Il vero spirito della polemica è semmai espresso dal Gran Muftì che, contro Papa Francesco è tornato a esprimere parole durissime: “Considero la dichiarazione del Papa immorale, non posso collegarla con i valori di base del cristianesimo”. Ma da quando, la memoria delle vittime di un genocidio, è incoerente con i valori di base del cristianesimo?