Il vescovo di Tiro: «Una guerra che non abbiamo voluto»
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Spenta l'attenzione mediatica sul viaggio di Leone XIV, il futuro del Libano resta incerto tra le conseguenze del 7 ottobre e la continua minaccia degli attacchi israeliani. A La Bussola il presule parla di un bilancio catastrofico per la popolazione e anche per la storia e la cultura del Paese.
Spentesi le luci sulla visita del Santo Padre a Beirut, continuano i bombardamenti di IDF nel sud del Libano alla ricerca di uomini, mezzi e infrastrutture di Hezbollah. Il futuro prossimo del Paese è quanto mai incerto; a livello internazionale si discute di Libano senza risparmio, mentre gli attacchi di IDF non sembrano fermarsi davanti a nessun appello o invito a deporre le armi. Mentre l’ambasciatore israeliano negli USA Yechiel Leiter afferma che lo Stato Ebraico «non ha nessuna pretesa territoriale sul Libano, desidera soltanto che il Paese sia sicuro», una fonte interna a IDF ha dichiarato che, stante la lentezza dell’esercito libanese nel requisire le armi a Hezbollah entro la fine dell’anno come pattuito (segnatamente perché i soldati si rifiutano di entrare nelle abitazioni private a cercarle), l’esercito israeliano se ne assumerà il compito.
Frattanto il corpo di intermediazione di UNIFIL ha denunciato un attacco da parte di un carro armato Merkava di IDF lungo la Blue Line – l’ultimo di una lunga serie di episodi simili.
Dal canto loro gli USA, per bocca dell’inviato speciale per il Medio Oriente Morgan Ortagus, reiterano la minaccia di un attacco israeliano massivo al Libano se Hezbollah non verrà disarmato entro la fine dell’anno.
Durante il Nono Consiglio di associazione tra Unione Europea e Libano, infine, tenutosi il 15 dicembre a Bruxelles, gli organismi UE hanno espresso il loro supporto alle istituzioni democratiche libanesi e sottolineato l’importanza del disarmo di ogni entità non statale sul territorio libanese, segnatamente Hezbollah e i gruppi palestinesi armati che allignano dentro e fuori i campi rifugiati. Entrambe le parti hanno espresso «preoccupazione» per le continue violazioni israeliane all’accordo di cessate il fuoco del 27 novembre 2024 tra lo Stato Ebraico e Hezbollah, «in particolare per gli attacchi al personale di UNIFIL, ai civili e alle loro infrastrutture» nel sud del Libano, invitando Israele a ritirarsi dal territorio libanese e a rispettare il diritto internazionale umanitario.
Per meglio comprendere le attuali condizioni di vita della popolazione del sud, ed in particolare delle comunità cristiane presenti sul territorio, abbiamo raggiunto Sua Eccellenza monsignor Charbel Abdallah, arcivescovo maronita di Tiro, la cui diocesi abbraccia l’intera regione. L’arcivescovado si trova nella città vecchia, affacciato sul porticciolo di pescatori; arrivati all'una passata di un sabato, un cortese sacerdote ci ha introdotto in cucina dove abbiamo trovato Sua Eccellenza intento a riscaldare per noi il pranzo preparato dalla cuoca e successivamente ci ha concesso un’intervista nel suo ufficio, gradevolmente adorno di croci e oggetti devozionali. Nato nel 1967 a Hajje, nel distretto di Saida, Abdallah è stato ordinato sacerdote nel 2003 e nominato vescovo eparca della diocesi di Tiro nel 2020; insegna Storia dell’arte e dell’architettura e greco antico all'Università pubblica libanese.
Monsignor Abdallah, quanti fedeli annovera la sua diocesi?
A Tiro ci sono quattro comunità cristiane: maroniti, greco-melchiti, latini e ortodossi e tre diocesi: maronita, melchita e ortodossa. Tutta la nostra diocesi maronita conta circa 22.000 fedeli divisi in 18 grandi, piccole e medie parrocchie, la maggioranza dei quali si trova nell’area del confine con Israele. Per quanto riguarda la sola città di Tiro, il numero totale dei cristiani, circa 3500, è stabile da alcuni anni; è drasticamente diminuito a partire dagli anni Cinquanta del Novecento. Molte famiglie se ne sono andate a cercare lavoro in altre parti del Libano o all’estero. Tradizionalmente i cristiani qui lavoravano come pescatori o come funzionari pubblici; ora chi è rimasto è impiegato nelle forze di polizia e nell’esercito – in mare non ci sono più pesci, i mezzi di pesca sono artigianali e lo Stato non investe nella pesca.
In occasione del recente viaggio del Papa in Libano la stampa internazionale ha messo in luce la situazione di “guerra” – il conflitto tra Israele e Hezbollah -– da cui è afflitto il Paese, segnatamente il sud, spesso però senza approfondire i termini della questione. Vuole parlarne in dettaglio?
Noi libanesi sopportiamo le conseguenze di una guerra, iniziata a partire dai fatti del 7 ottobre 2023, che non abbiamo voluto. Questa guerra non risponde ai bisogni dei libanesi, è una guerra scoppiata per rispondere a una situazione che non riguarda il Libano. La guerra ha causato migliaia di vittime, la distruzione massiva delle case e delle infrastrutture, il collasso dell’economia locale, la devastazione dei terreni agricoli e dell’ambiente in genere, l’esodo forzato dei residenti, obbligati a lasciare le loro case. Per quale ragione? Niente altro che distruggere il Paese. Chi ha lasciato la propria casa non può rientrare, ci sono ancora migliaia di sfollati che vivono in condizioni precarie, senza poter tornare a casa loro né lavorare. Delle diciotto parrocchie di cui è composta la nostra diocesi maronita, cinque si trovano in villaggi adiacenti al confine con Israele: sono state tra le più duramente colpite da più di due anni di tiri di artiglieria, attacchi aerei e bombardamenti. Vuole che gliele elenchi?
Prego.
Sono Alma al Chaab, Kfour, Khiam, Sarada, Qawzah e Kfarwa. In ciascuno di questi villaggi il 95% della popolazione se n'è andato e non può tornare, perché la maggior parte delle case sono distrutte o rese inabitabili e perché mancano l’elettricità e l’acqua, essendo state le reti pesantemente danneggiate. Inoltre l’utilizzo massiccio da parte di IDF di bombe al fosforo ha danneggiato irrimediabilmente i terreni agricoli, privando gli abitanti dei mezzi di sussistenza. Si calcola che circa ventimila alberi di olivo, situati principalmente al confine con Israele, siano andati perduti. Da notare che in alcuni casi le piante sono state divelte volontariamente dalle forze israeliane, senza ragione apparente. Inoltre, circa diciottomila piante di avocado sono seccate a causa della distruzione degli impianti di irrigazione e dei pozzi artesiani, o sono state schiacciate dai mezzi blindati di IDF. Anche il bestiame ha pagato un pesante tributo alla guerra: abbandonate a sé stesse dagli abitanti costretti a fuggire, numerose mandrie sono morte lasciando i proprietari privi dei mezzi di sostentamento.
Per quanto riguarda gli edifici religiosi, tutte le nostre chiese e le case parrocchiali dei villaggi che ho elencato prima sono state distrutte o pesantemente danneggiate dagli attacchi aerei o dai cannoneggiamenti di IDF, e in molti casi si trattava di edifici storici di grande valore.
In particolare per lei, che è storico dell’arte, dev’essere un enorme dispiacere.
Oltre ad aver privato le parrocchie dei luoghi di culto essenziali alla vita spirituale e comunitaria, la distruzione delle chiese ha annientato parte della storia e della cultura del nostro Paese. Come accennavo prima, dopo più di due anni di guerra il bilancio è catastrofico: le perdite sono materiali, agricole, economiche, umane e morali.
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