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LETTERE IN REDAZIONE

Il CAI e le croci in montagna

Quella di alcuni esponenti del Club Alpino Italiano, che non vogliono installare altre croci in vetta e magari rimuovere quelle che già ci sono, è una posizione ipocrita che non sa riconoscere, tra l'altro, come la bellezza del paesaggio alpino sia frutto del connubio tra opera creatrice di Dio e opera creatrice dell'uomo.

Caro direttore,
anzitutto vi sono grato per aver pubblicato l’ottimo articolo di Ermes Dovico sull’argomento in oggetto. Da cristiano e da socio quarantennale del CAI vorrei condividere il mio pensiero.
L’episodio, come affermato giustamente nel citato articolo, si può annoverare tra le manifestazioni dell’ipocrita cultura conosciuta come politicamente corretto. Fare o dire cose per motivi diversi da quelli dichiarati io la chiamo ipocrisia. L'ipocrisia, infatti, è tipica di coloro che non hanno il coraggio di rivelare, anzitutto a sé stessi, i veri motivi che guidano il loro pensiero ed operato.
Nel caso specifico della collocazione e installazione delle croci in vetta alle montagne, così come nel chiedere in genere la rimozione dei crocifissi nei luoghi pubblici, si giustificano tali richieste con un fantomatico rispetto nei confronti degli aderenti alle altre culture e religioni.
Osservo, però, che in realtà queste richieste non vengono perlopiù da esponenti di tali culture o religioni, bensì da italiani che, avendo smarrito le proprie, pretendono che anche gli altri rinuncino alle radici a cui ancora credono; essi dimenticano che questi valori hanno contribuito in modo determinante, nella loro bellezza interiore, a costruire quella bellezza esteriore (a livello paesaggistico e artistico) che i detrattori dei simboli religiosi tanto ammirano. 

Nello specifico, quando si è esponenti di spicco di un’associazione, peraltro benemerita, quale il Club Alpino Italiano, si dovrebbe essere culturalmente attrezzati per sapere come la stessa selvaggia razionalità che costituisce la bellezza del paesaggio alpino, attualmente, sia il frutto congiunto dell’incessante e continua opera creatrice di Dio (o, se si è atei, delle forze delle leggi naturali) e di quella plurisecolare dell’umanità guidata dai valori a cui crede, negli ultimi duemila anni polarizzati dal cristianesimo. Infatti, ormai in tutto l’arco alpino non c’è quasi traccia di foreste primarie (ossia completamente naturali e non manutenute); i pascoli e i boschi, per non parlare ovviamente dei campi, sono frutto del lavoro, della cura e della coltivazione umana, che solitamente suddivide il lavoro, le spese e i relativi frutti (in particolare nel caso dei boschi) a livello comunitario. Se oggi, improvvisamente, venisse a mancare l’operosità umana, le Alpi tornerebbero ad essere in pochi secoli il luogo inospitale in cui si trovavano quando gli stessi fondovalle più ricchi non erano altro che paludi e i passi erano molto pericolosi e divisivi, come ci ha rivelato la muta testimonianza dell’uomo di Similaun.    
Per tali motivi, lo scopo del Creato (e non la "Natura"), inclusi i simboli religiosi di quei valori che tanto peso hanno avuto nel plasmare il paesaggio che oggi ammiriamo, è quello di condurci al Creatore.

Pierluigi Cerbai