Watergate rito antico, la Comunicazione vaticana non sa rispondere
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La Bussola scrive al direttore della Sala Stampa, Bruni. Ma le risposte non chiariscono se davvero, oltre alla consultazione ufficiale e favorevole, se ne fecero altre per giustificare la guerra alla Messa in latino prodotta col motu proprio Traditionis custodes. In realtà sembra che ad affossare il rito antico sia stata la Congregazione del culto divino e non i vescovi consultati.

La scorsa settimana non si è smesso di parlare di quello che abbiamo ribattezzato il Watergate vaticano. Diane Montagna, autrice dello scoop che ha rivelato come l'esito della consultazione sull'applicazione del Summorum Pontificum fatta nel 2020 tra i vescovi diocesani fosse diverso da quanto lasciato intendere nell'incipit di Traditionis custodes, ha pubblicato il numero di protocollo vaticano del parere originale della congregazione per la dottrina della fede.
È la pistola fumante che mette la parola fine sulla questione dell'autenticità dei testi precedentemente pubblicati. Un'autenticità che il direttore della Sala Stampa della Santa Sede Matteo Bruni, rispondendo stizzito ad una domanda di Hannah Brockhaus originariamente rivolta a monsignor Vittorio Francesco Viola, aveva detto di «non confermare». Il «portavoce» vaticano aveva inoltre sostenuto che il materiale reso pubblico da Montagna riguardava «presumibilmente parte di uno dei documenti su cui si è fondata la decisione, e come tale alimenta una ricostruzione anche molto parziale e incompleta del processo decisionale».
Bruni però è stato sfortunato perché durante la conferenza stampa del 3 luglio probabilmente ignorava che nelle stesse ore la casa editrice Fede & Cultura avrebbe fatto partire le prevendite del libro «La liturgia non è uno spettacolo - Il Questionario ai vescovi sul rito antico: arma di distruzione di Messa?». Il volume, scritto da don Nicola Bux e Saverio Gaeta, annuncia di pubblicare il giudizio complessivo della congregazione con annessa raccolta completa di citazioni di vescovi sfavorevoli a toccare il Summorum Pontificum. E un «antipasto» è stato fornito proprio a Montagna che, pochi giorni fa, rispondendo a Bruni ha potuto mettere online sia il numero di protocollo sia altre parti finora inedite di quei documenti che secondo Bruni avrebbero alimentato una ricostruzione «molto parziale».
Ora che sono uscite ulteriori carte e che sappiamo di poter trovare la documentazione completa nel libro di Bux e Gaeta, la risposta data a Brockhaus lo scorso 3 luglio appare ancor di più problematica. In quell'occasione, inoltre, Bruni aveva detto che «alla consultazione citata tra l’altro si è infatti unita successivamente altra documentazione, altri rapporti riservati, anche frutto di ulteriori consultazioni che sono pervenute al dicastero per la dottrina della fede». Tuttavia, sappiamo che Francesco in Traditionis custodes non ha fatto accenno a materiale diverso dagli «auspici formulati dall'episcopato» e dal «parere della congregazione per la dottrina della fede». Quindi, quale sarebbe questa «altra documentazione» tirata in ballo per la prima volta da Bruni nel corso della sua risposta alla domanda sulle prime rivelazioni di Montagna?
La Nuova Bussola Quotidiana lo ha chiesto direttamente a lui. Diamo atto a Bruni di aver risposto alla nostra mail questa volta. Purtroppo però non ci ha fornito alcun chiarimento su un elemento inedito fino al 3 luglio e svelato proprio da lui nel corso della già citata conferenza. Sul processo decisionale relativo a Traditionis custodes il direttore ci ha risposto che «come scritto nello stesso motu proprio, la congregazione per la dottrina della fede formulò un parere in merito e si presero in esame anche gli auspici formulati dall’episcopato, allargando ulteriormente gli elementi su cui fondare la decisione».
Questa risposta, però, ci fa tornare alla casella di partenza: sappiamo bene che Francesco attribuì un ruolo nella sua decisione al parere dato dall'ex Sant'Uffizio sulla base dei risultati della consultazione condotta tra i vescovi. Ma è stato Bruni stesso a sostenere che questi due fattori non sarebbero stati esclusivi nel processo decisionale, perché affiancati dall'esistenza del frutto di «ulteriori consultazioni». Per questo avevamo chiesto al direttore della Sala Stampa di dare più dettagli sulla natura di queste consultazioni: sono state fatte tra i vescovi diocesani come la precedente che aveva dato esito non sfavorevole a Summorum Pontificum?
Gli avevamo chiesto anche di sapere quale necessità avrebbe portato a condurre queste presunte «ulteriori consultazioni» nonostante una consultazione completa fosse già avvenuta e avesse dato anche origine ad un parere della congregazione per la dottrina della fede. Infine, volevamo sapere se c'era una spiegazione alla mancata menzione di questa «altra documentazione» nel testo di Traditionis custodes e della lettera d'accompagnamento dove, invece, si citavano solo la consultazione del 2020 e il parere dell'ex Sant'Uffizio che - oggi sappiamo - non presentavano una situazione meritevole di preoccupazione.
Purtroppo queste nostre domande sono rimaste senza risposta. Tuttavia, dal momento che Bruni ha attribuito alla pubblicazione di Montagna la possibilità di alimentare «una ricostruzione anche molto parziale e incompleta» sarebbe forse stato opportuno da parte sua fornirne una completa ed esauriente. Invece la novità del «frutto di ulteriori consultazioni» buttata lì senza altri dettagli non poteva che sollevare nuove domande. In ogni caso, abbiamo chiesto ad alcuni vescovi diocesani che avevano ricevuto il questionario della congregazione per la dottrina della fede e ci è stato risposto che dopo quella del 2020 non è pervenuta loro un'altra consultazione sulla materia. Si potrebbe dedurre, dunque, che qualora queste ulteriori consultazioni siano state effettivamente realizzate, abbiano riguardato un campione parziale e più incompleto - questo sì! - rispetto alla precedente. Dunque, perché avrebbero dovuto pesare di più nel processo decisionale? Da chi parla a nome della Santa Sede ci si aspetta una maggiore chiarezza.
Fonti interne, in realtà, ci confermano che l'indicazione dell'ex Sant'Uffizio all'epoca, concorde con la maggioranza dell'episcopato consultato, era univoca e a favore del mantenimento del Summorum Pontificum, ma a condizionare la decisione di Francesco sarebbe stata soprattutto la volontà dei vertici di un altro dicastero, quello per il culto divino e la disciplina dei sacramenti.
Il clamore provocato da questo Watergate vaticano non deve in alcun modo passare come una forma di pressione su Leone XIV per abrogare Traditionis custodes perché l'opportunità di abrogare o quanto meno far cadere il motu proprio del 2021 prescinde dalla rivelazione di questi (gravi) fatti. Sembra improbabile che il Papa regnante, promotore dell'unità e predicatore di pace, non voglia sciogliere questo nodo di cui conosce le proporzioni e le conseguenze. Magari lo farà smorzando l'applicazione dei provvedimenti restrittivi che è stata centralizzata a Roma proprio dal dicastero per il culto divino, con intenti opposti a quelli che potrebbero animare Prevost. Ci vuole pazienza ed intelligenza, doti di cui il nuovo Papa dispone in abbondanza.
Guerra al rito antico, non furono i vescovi a scatenarla
La volontà dell'episcopato, invocata da Francesco per "farla finita" con la Messa in latino, appare ben diversa stando ai documenti esaminati in La liturgia non è uno spettacolo. Nessuno voleva una guerra, spiega il coautore mons. Bux, anzi la Chiesa ha bisogno di pace liturgica.
- Una Messa da sogno: il Vetus Ordo nel Novus Ordo, di Riccardo Barile
La domanda scomoda sulla Messa in latino manda Bruni in tilt
Documenti alla mano, Diane Montagna rivela che la maggioranza dei vescovi non chiedeva restrizioni al rito antico, come invece scrisse Papa Francesco. Il direttore della Sala Stampa non conferma e non smentisce, ma vacilla. E non lascia rispondere il segretario del Culto Divino.