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Esercitazione su Quasimodo

Un confronto tra l’esilio del poeta siciliano, cantato in “Vento a Tindari”, e quello di Dante, messo in versi nel canto XVII del Paradiso.
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Cultura 17_05_2020

PRIMA PROVA SCRITTA. ESEMPIO DI TIPOLOGIA A

ANALISI E INTERPRETAZIONE DI UN TESTO LETTERARIO ITALIANO

Vento a Tindari appartiene alla prima raccolta Acque e terre, improntata a modalità di scrittura ermetiche, ma anche influenzata dalla maniera di versificazione dannunziana. Quasimodo costruisce il mito della propria terra precocemente abbandonata elaborando versi alti, ricercati.

L’occasione-spinta della poesia è una gita a Tindari, paesino del messinese (per l’esattezza una frazione di Patti, sede di un santuario mariano), in compagnia di amici oppure più semplicemente la rievocazione nella memoria del paese. Il viaggio o la memoria rappresenta la possibilità per la riflessione sulla condizione esistenziale del poeta, che è esule come Dante: evidenti sono le allusioni al canto XVII del Paradiso («Aspro è l’esilio,/ […]/ amaro pane a rompere», vv. 23-30).

Tindari si contrappone alla città in cui il poeta vive. Nonostante il ritorno nella città desti piacere nell’animo del poeta, al contempo trasmette in lui la considerazione della precarietà dell’esistenza, dell’aspetto effimero e transeunte della vita, dell’illusione dell’amore, che è in fondo un tentativo di fuga dalla tristezza.

L’esperimento stilistico di Quasimodo è particolare in questa lirica: il poeta elimina spesso gli articoli, si avvale di analogie difficili, sottolinea immagini e parole con frequenti anastrofi. La ricerca della musicalità è molto presente nei versi grazie all’uso di assonanze e allitterazioni (dei suoni t e d) che richiamano il nome del paese (Tindari).

Vento a Tindari, da Acque e terre (1920-1929)


Tindari, mite ti so
Fra larghi colli pensile sull’acque
Delle isole dolci del dio,
oggi m’assali
e ti chini in cuore.

Salgo vertici aerei precipizi,
assorto al vento dei pini,
e la brigata che lieve m’accompagna
s’allontana nell’aria,
onda di suoni e amore,
e tu mi prendi
da cui male mi trassi
e paure d’ombre e di silenzi,
rifugi di dolcezze un tempo assidue
e morte d’anima

A te ignota è la terra
Ove ogni giorno affondo
E segrete sillabe nutro:
altra luce ti sfoglia sopra i vetri
nella veste notturna,
e gioia non mia riposa
sul tuo grembo.

Aspro è l’esilio,
e la ricerca che chiudevo in te
d’armonia oggi si muta
in ansia precoce di morire;
e ogni amore è schermo alla tristezza,
tacito passo al buio
dove mi hai posto
amaro pane a rompere.

Tindari serena torna;
soave amico mi desta
che mi sporga nel cielo da una rupe
e io fingo timore a chi non sa
che vento profondo m’ha cercato.


Rispondi alle domande

Comprensione e analisi

1. Offri una tua spiegazione del componimento stanza per stanza.
2. Presenta il contesto in cui è ambientata la poesia e soffermati sui personaggi, riconoscendone le caratteristiche e gli eventuali aspetti che richiamano la biografia dell’autore.
3. Qual è la forma metrica della poesia?
4. Riconosci le immagini principali della poesia, le metafore, le analogie e le altre figure retoriche che rendono il testo per certi versi difficile e arduo da comprendere.
5. Rintraccia le allusioni al canto XVII del Paradiso e istituisci un confronto tra la condizione esistenziale di Quasimodo e quella del poeta fiorentino.
6. Approfondisci la dimensione della musicalità della poesia riconoscendo le figure retoriche fonetiche e spiegando il significato del loro utilizzo.
7. Qual è lo stato d’animo prevalente nel poeta? Quali parole e quali immagini lo descrivono meglio?

Interpretazione

Proponi una tua interpretazione personale dei versi di Vento a Tindari. Il tema della terra madre e del ritorno impossibile al paese natio/infanzia è centrale nella poesia e nella narrativa del Novecento. Affrontalo a partire da quei testi che conosci meglio o prediligi. Infine, confronta la dimensione dell’esilio di Dante nel Paradiso (canto XVII) e quella di Quasimodo. In che senso il poeta siciliano si sente esiliato? Perché?

Approfondimento. Per un confronto con l’esilio di Dante

Nel canto XVII del Paradiso, dopo aver chiarito che l’onniscienza divina non toglie in alcun modo la libertà umana, Cacciaguida profetizza il futuro esilio di Dante da Firenze con la similitudine derivata dalla celebre storia di Ippolito. Come Ippolito, figliastro di Fedra, dovette abbandonare Atene, una volta accusato falsamente da lei di aver cercato di arrecarle violenza, così anche Dante dovrà abbandonare la città natale.

Nel doppio parallelo la città natale è descritta come una matrigna innamorata di Dante e che lo accusa di violenza, mentre è lei ad essere falsa e ingiusta. Non riuscendo ad avere Dante per sé come vorrebbe, Firenze lo costringe alla condizione di exul immeritus alla stregua di Ippolito.

Il trisavolo Cacciaguida lancia l’accusa nei confronti del papa Bonifacio VIII che sta progettando l’esilio di Dante a Roma. I versi in cui viene esplicitato l’esilio senza mezzi termini sono tra i più noti del poema:

Tu lascerai ogne cosa diletta
più caramente: e questo è quello strale
che l’arco de lo essilio pria saetta.
Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale.

Dante non potrà più vedere la città amata, la casa, la famiglia, gli amici. Proverà l’asprezza di dover mendicare. Vagherà di città in città, di corte in corte, mangiando il pane salato tipico di quelle terre. In Toscana il pane era cucinato senza sale, probabilmente per un’usanza che risaliva al XII secolo quando i Pisani iniziarono a far pagare a caro prezzo ai Fiorentini il sale che sbarcava nel loro porto. Così, questi cominciarono a produrre pane senza sale.

La difficile situazione di Dante in esilio sarà, però, aggravata dalla compagnia malvagia con cui il poeta si troverà ad agire. Si allude in questi versi al gruppo dei guelfi bianchi con cui Dante rimase per qualche tempo, probabilmente nei pressi di Arezzo, con l’intento di pianificare il ritorno a Firenze. Ad un certo punto, però, il poeta decise di dissociarsi dai tentativi dei compagni di rientrare a Firenze. Così, quando nel 1304 essi combatterono presso la località la Lastra a Fiesole contro i guelfi neri, Dante non partecipò allo scontro cruento che vide la disfatta dei bianchi.

Dante trovò dapprima ospitalità a Verona presso Bartolomeo della Scala. Nella realtà dei fatti, Dante non fu probabilmente molto gratificato dal rapporto con il signore. Il giudizio estremamente lusinghiero espresso dal Sommo Poeta è dovuto al fatto che quando Dante compone questi canti si trova nuovamente a Verona. Continua la profezia di Cacciaguida. Dante conoscerà anche Cangrande della Scala. Ancora piccolo d’età, Cangrande della Scala non ha potuto ancora mostrare il suo valore proveniente dal pianeta Marte (la virtù guerriera) alla gente, ma, divenuto adulto, lo paleserà tanto che le sue gesta saranno straordinarie. Divenuto signore unico di Verona nel 1312, morirà nel 1329. Sarà lui il nuovo protettore di Dante.

La parola «magnificenza», qui riferita a Cangrande, comparirà anche nel saluto del poeta a Beatrice e, più tardi, nell’inno alla Vergine Maria. Come sempre, l’uso per tre volte di un termine crea un alone di sacralità, in questo caso intorno a quelle figure che sono andate in suo soccorso nei momenti di difficoltà: Maria, colei che ha visto per prima il suo smarrimento nella selva oscura, Beatrice, che l’ha guidato sulla Terra e in Cielo verso Dio, Cangrande che gli ha dato ospitalità durante l’esilio durante il ritorno del poeta a Verona.

Le parole di Cacciaguida fanno crescere in Dante la paura per le insidie che si nascondono negli anni a venire e un dubbio. Dove troverà ospitalità Dante, una volta abbandonati la città natale, la casa, i parenti, gli amici? Se rivelerà tutto quanto ha visto e tutte le anime che ha incontrato all’Inferno e in Purgatorio, chi mai lo accoglierà dal momento che gli sono stati rivelati fatti che avranno per molti il «sapor di forte agrume»? Dante teme, però, che, se non sarà testimone sincero della verità che ha visto, perderà la fama presso «coloro/ che questo tempo chiameranno antico» ovvero i posteri.

Ritorna la paura che s’era già impossessata di Dante nei primi tre canti dell’Inferno, di fronte alla proposta di Virgilio di intraprendere il viaggio con lui e dinanzi all’epigrafe della porta infernale. Tornato sulla Terra, Dante inizierà la sua vera missione nella vita ordinaria e dovrà avere il coraggio di essere poeta, di scrivere, di raccontare la verità. Dovrà assumersi pienamente la responsabilità di seguire la sua vocazione, di coltivare i talenti che gli sono stati assegnati, di non nasconderli nel terreno.

A Dante si presenta ora la scelta in cui prima o poi ci imbattiamo tutti noi: seguire la convenienza economica e l’utile personale (che per il poeta consiste nel trovare ospitalità presso i signori) oppure i talenti mettendoli al servizio di tutta la comunità, per la felicità nostra e degli altri?

Il trisavolo cerca di dissolvere ogni dubbio dalla mente di Dante e risponde con chiarezza di giudizio che le parole di Dante saranno fastidiose per le coscienze sporche. In ogni caso, però, il poeta deve bandire ogni menzogna e rivelare tutta la verità. Il linguaggio diventa particolarmente forte avvalendosi di immagini crude come la rogna o il cibo digerito, che afferiscono ad argomenti non certo alti, ma bassi e umili, estremamente concreti, proprio in un contesto etereo come quello delle anime splendenti e luccicanti del Paradiso. Di sapore sgradevole, non appena assaporata, la verità diverrà nutrimento vitale, quando sarà digerita.

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