Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Sant’Espedito a cura di Ermes Dovico
APPUNTI PER LA MATURITÀ/2

Esercitazione su Pascoli

È di una grande tenerezza la situazione descritta nella poesia Valentino, che rivela tutto l’amore di una madre. Ed essa si inserisce nel solco della poetica del fanciullino.

Leggi la scheda su Pascoli

Cultura 29_03_2020

Un bambino cammina per strada, indossando un abito nuovo, realizzato dalla mamma che ha speso tutti i soldi messi da parte grazie alla vendita delle uova. Quel bimbo non porta scarpe, perché la mamma non aveva più denaro per acquistarle. Quando le galline hanno iniziato a chiocciare e non hanno più fatto le uova, la donna non ha potuto più accantonare i soldi e il bambino è rimasto a piedi nudi.

La scena è di una tenerezza immensa, ancor più oggi quando è raro assistere a situazioni simili in Occidente. Pascoli attribuisce al bambino un nome: lo chiama Valentino, titolo del componimento stesso, un nome che di per sé conferisce grande significato ai versi. «Valentino» significa «che vale», «forte», «gagliardo». Quel bimbo non possiede nulla, tutto il suo valore è già nella sua persona e nell’amore di quella madre che, pur disponendo di pochi soldi, offre tutto perché la sua creatura possa splendere ancor di più, «vestito di nuovo». In quartine di endecasillabi nasce così la poesia Valentino, una delle più tenere dei Canti di Castelvecchio.

GIOVANNI PASCOLI, Valentino da I Canti di Castelvecchio

Oh! Valentino vestito di nuovo,
come le brocche dei biancospini!
Solo, ai piedini provati dal rovo
porti la pelle de' tuoi piedini;

porti le scarpe che mamma ti fece,
che non mutasti mai da quel dì,
che non costarono un picciolo: in vece
costa il vestito che ti cucì.

Costa; ché mamma già tutto ci spese
quel tintinnante salvadanaio:
ora esso è vuoto; e cantò più d'un mese
per riempirlo, tutto il pollaio.

Pensa, a gennaio, che il fuoco del ciocco
non ti bastava, tremavi, ahimè!,
e le galline cantavano. Un cocco!
ecco ecco un cocco un cocco per te!

Poi, le galline chiocciarono, e venne
marzo, e tu, magro contadinello,
restasti a mezzo, così con le penne,
ma nudi i piedi, come un uccello:

come l’uccello venuto dal mare,
che tra il ciliegio salta, e non sa
ch’oltre il beccare, il cantare, l’amare,
ci sia qualch’altra felicità.


RISPONDI ALLE DOMANDE

Comprensione e analisi

1. Quali sono i temi principali della poesia? Spiegali.

2. Presenta il contesto in cui è ambientata la poesia e soffermati sui personaggi, riconoscendone le caratteristiche che il poeta attribuisce loro.

3. Pascoli presta particolare attenzione anche in questa poesia alla natura e agli animali. Approfondisci la riflessione soffermandoti sulle immagini poetiche scelte dal poeta.

4. Riconosci le onomatopee e le similitudini presenti nella poesia e commentale.


Interpretazione

Proponi una tua interpretazione personale dei versi proposti. Approfondiscila, poi, con opportuni riferimenti all’autore e ad altri suoi componimenti in cui compaiono immagini appartenenti al mondo dell’infanzia. Infine, concludi con una riflessione sulla poetica del fanciullino di Pascoli, così come emerge in Valentino e in altre poesie studiate.

Dopo aver svolto l’analisi leggi queste riflessioni sulla poetica del fanciullino di Pascoli

Il fanciullino è un saggio di Pascoli che descrive la capacità di stupore infantile. Fu pubblicato nel 1897 e rivisitato successivamente nel 1907 sulla scia della lettura dello psicologo James Sully, autore di saggi sull’infanzia. In questo momento essenziale nella vita dell’uomo, il bambino, dotato di spontaneità e di ingenuità, di meraviglia e di stupore, entra in contatto con la realtà come se la vedesse per la prima volta.

Anche l’adulto conserva questa capacità di stupore, così viva nel bambino, anche se in lui è spesso sopita e quasi dimenticata:

È dentro noi un fanciullino che non solo ha brividi […], ma lagrime ancora e tripudi suoi. Quando la nostra età è tuttavia tenera, egli confonde la sua voce con la nostra, e dei due fanciulli che ruzzano e contendono tra loro, e, insieme sempre, temono sperano godono piangono, si sente un palpito solo, uno strillare e un guaire solo. Ma quindi noi cresciamo, ed egli resta piccolo; noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica serena maraviglia; noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce, ed egli fa sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo squillo come di campanello.

Il professore, l’avvocato e chi esercita una professione si dimenticano spesso dell’animo infantile che faceva sentire la sua voce da bambino.

Per Pascoli il fanciullino

è quello che piange e ride senza perché, di cose che sfuggono ai nostri sensi e alla nostra ragione. Egli è quello che nella morte degli esseri amati esce a dire quel particolare puerile che ci fa sciogliere in lacrime, e ci salva. Egli è quello che nella gioia pazza pronunzia, senza pensarci, la parola grave che ci frena. Egli rende tollerabile la felicità e la sventura, temperandole d’amaro e di dolce, e facendone due cose ugualmente soavi al ricordo. Egli fa umano l’amore, perché accarezza esso come sorella (oh! Il bisbiglio dei due fanciulli tra un bramire di belve), accarezza e consola la bambina che è nella donna.

Il fanciullo guarda la realtà con uno sguardo ingenuo, non malizioso. Non vuole possedere quello che incontra, ma rimane come estasiato, attonito, colpito per la realtà che c’è. Il fanciullino è un nuovo Adamo che mette il nome alle cose, chiede il perché di tutto perché vuole sapere le ragioni di ciò che accade: «Che cos’è questo oggetto? Come si chiama? A che cosa serve?». La conoscenza avviene attraverso la creazione di un legame con l’oggetto incontrato fino al desiderio di comprendere il suo fine e la sua utilità. Senza questo stupore tutto diventa inutile e insignificante. Per questo si può correttamente affermare che solo lo stupore conosce.

Con il suo sguardo e le sue parole il fanciullino illumina la realtà perché si veda meglio, a differenza di quei retori che a volte si avvalgono del linguaggio dei bambini in modo artificioso da «uomini scaltriti» e così abbagliano gli occhi. Invece «il poeta è colui che esprime la parola che tutti avevano sulle labbra e che nessuno avrebbe detta. Ma non è lui che sale su una sedia o su un tavolo, ad arringare. Egli non trascina, ma è trascinato; non persuade, ma è persuaso».

L’uomo contemporaneo conosce un maggior numero di particolari della realtà rispetto agli antichi, ma ha perso la capacità di stupirsi. Il poeta trova ispirazione in ciò che lo circonda, non deve sforzarsi per trovarla altrove.

Il poeta, se è veramente tale, ispira sempre «buoni costumi, d’amor patrio e familiare e umano». Eppure, il poeta non scrive versi con quell’obiettivo, di ispirare buoni costumi o amor patrio.

Il poeta è poeta, non oratore o predicatore, non filosofo, non istorico, non maestro, non tribuno o demagogo, non uomo di stato o di corte. E nemmeno è, sia con pace del maestro, un artiere che foggi spada e scudi e vomeri; e nemmeno, con pace di tanti altri, un artista che nielli e ceselli l’oro che altri gli porga. A costituire il poeta vale infinitamente più il suo sentimento e la sua visione, che il modo col quale agli altri trasmette l’uno e l’altra.

Concludiamo questa riflessione con la poesia intitolata Il fanciullo, posta a termine del saggio Il fanciullino:

Il fanciullo

Il nome? Il nome? L’anima io semino,
ciò ch’è di bianco dentro il nocciolo,
    che in terra si perde,
        ma nasce il bell’albero verde.

Non lauro e bronzo voglio; ma vivere;
e vita è il sangue, fiume che fluttua
    senz'altro rumore,
        che un battito, appena, del cuore.

Nei cuori, io voglio, resti un mio palpito,
senz’altro vanto che qual d’un brivido
    che trema su l’acque,
        fa il sasso che in fondo vi giacque.

Nell’aria, io voglio, resti un mio gemito:
se l’assiuolo geme voglio essere
    tra i salci del rio
        anch’io, nelle tenebre, anch’io.

Se le campane piangono piangono,
io nelle opache sere invisibile
    voglio essere accanto
        di quella che piange a quel pianto.

Io poco voglio; pur, molto: accendere
io su le tombe mute la lampada
    che irraggi e conforti
        la veglia dei poveri morti.

Io tutto voglio; pur, nulla: aggiungere
un punto ai mondi della Via Lattea,
    nel cielo infinito;
        dar nuova dolcezza al vagito.

Voglio la vita mia lasciar; pendula
ad ogni stelo, sopra ogni petalo,
    come una rugiada
        ch’esali dal sonno, e ricada

nella nostr’alba breve. Con l’iridi
di mille stille sue nel sole unico
    s’annulla e sublima...
        lasciando più vita di prima.