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PROPAGANDA

Ed ecco lo studio per normalizzare i “poliamori”

Una ricerca pubblicata sulla rivista Frontiers in Psychology rileva che l’11% degli intervistati ha già vissuto un “poliamore”. Lo studio, con limiti metodologici, cerca di normalizzare una pratica evidentemente rifiutata dalla stragrande maggioranza. La solita propaganda contro la famiglia naturale e che è pure macchiata dal conflitto di interessi di chi ha promosso la pubblicazione.

Vita e bioetica 27_05_2021

«Le relazioni non monogame sono sorprendentemente comuni e potrebbero diffondersi ancora». «Il desiderio di vivere una relazione poliamorosa è comune quanto quello di trasferirsi in un altro Paese». «Aver vissuto un poliamore è comune quanto possedere una laurea». Sono solo alcune delle spiazzanti affermazioni contenute in una nuova pubblicazione che pare proprio avere una finalità precisa: quella di sdoganare i «poliamori», le unioni con più di due partner.

Stiamo parlando di una ricerca pubblicata sulla rivista Frontiers in Psychology, dalla quale emergono numerosi dati, i più significativi tra questi - vedendo anche la visibilità che stanno ottenendo - sono essenzialmente un paio: quelli secondo cui l’11% delle persone ha già vissuto un «poliamore» e il 17% mostra un interesse in tal senso; se ne ricava come davvero queste relazioni multiple sarebbero già molto diffuse e, quindi, sarebbero da intendersi come qualcosa di assolutamente normale, da liberare anzi dallo stigma di cui sono vittime.

Ora, fin qui lo sforzo propagandistico di chi ha realizzato questo studio, tra cui spicca la professoressa Amy C. Moors - la quale sulla «non monogamia consensuale» su Twitter parla spesso con entusiasmo, a dimostrazione della sua non imparzialità -, e di chi ne sta presentando trionfalmente gli esiti.

La realtà delle cose, però, è ben diversa. Vediamo perché. Tanto per cominciare, una nota metodologica: la ricerca non ha affatto sondato un campione rappresentativo della popolazione americana, bensì 3.438 single americani: già questo è un dato indicativo. Inoltre, se l’11%, più precisamente il 10.7%, di questi single ha vissuto un «poliamore», vuol pur sempre dire che quasi il 90% questa esperienza non l’ha provata; quota, quest’ultima, che, se si considerasse un campione realmente rappresentativo della popolazione generale, salirebbe ancora probabilmente oltre il 95%, relegando il «poliamore» alla marginalità che effettivamente ha. Anche il 17% di interesse verso il «poliamore» (in realtà, pure qui, un po’ meno: il 16,8%), dimostra ben poco, dato che tale percentuale potrebbe essere gonfiata dalla semplice curiosità delle persone sondate o dalla loro voglia di apparire «al passo con i tempi»; in ogni caso, oltre l’80% di scarso o nullo interesse, tra i single, non è un dato marginale.

Ancora, sono gli stessi autori di questa indagine a tracciare un identikit molto particolare di chi ha vissuto un «poliamore»: in prevalenza giovani maschi con un livello di istruzione non elevato, di idee liberal e, spesso, appartenenti alla minoranza Lgbt. Non stiamo insomma parlando affatto del cittadino qualunque. Non solo: c’è un ultimo aspetto assai eloquente che andrebbe precisato, vale a dire che questa ricerca - come si legge su Frontiers in Psychology, in calce all’articolo in una nota significativamente chiamata «conflitto di interessi» - è stata promossa da Match, una società di incontri «coinvolta nella progettazione del sondaggio completo» e che «ha finanziato la raccolta dei dati».

Ce n’è insomma abbastanza per ritenere questo lavoro - che pure contiene qualche informazione interessante - tutto fuorché la dimostrazione che la «non monogamia consensuale» sia qualcosa di ordinario. Tuttavia, è evidente lo sforzo di normalizzazione che, con una simile ricerca, si vuole portare avanti: dopo le “nozze gay”, si vuole cioè far passare l’idea che anche l’unione tra due partner sia, dopotutto, qualcosa di superato. E lo si fa, tra l’altro, ricorrendo a manipolazioni già collaudate. Difficile, infatti, non scorgere similitudini tra questo nuovo studio e i vecchi Rapporti Kinsey - dal nome del loro ideatore, l’entomologo e attivista Lgbt Alfred Charles Kinsey -, con cui si cercò di far passare l’idea, già nell’America degli anni Cinquanta, dell’omosessualità come fatto normale e già parecchio diffuso.

Passano insomma i decenni, ma i tentativi di condizionamento dell’opinione pubblica restano quelli di sempre. L’importante, per chi abbia a cuore i valori fondanti una società - primo fra tutti quello della famiglia naturale fondata sul matrimonio - è quindi riconoscere l’agire propagandistico e smascherarlo subito, prima che sia troppo tardi e, soprattutto, prima che in troppi vi abbocchino. Dato che trattasi di film già visto, meglio restare vigili. Perché il finale, purtroppo, lo conosciamo già.