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L'ANNIVERSARIO

Dostoevskij, i 200 anni di un uomo superfluo (e sublime)

A 200 anni dalla nascita di Dostoevskij. Impossibile una sintesi nel suo percorso. Ma la sua vita è nascosta nelle pagine del suo personaggio più amato che attraversa molte delle sue opere: l'uomo superfluo. Un’eterna promessa mai compiuta, un uomo tra parentesi, un sognatore che rimanda ai poveri in spirito dei Vangeli. E come lui è individuo smarrito tra la propria angosciosa ricerca di una verità e il rifiuto di una possibilità di tutto il bello e il sublime sognato.

Cultura 08_11_2021

Fëdor Michajlovič Dostoevskij nasce a Mosca l’11 novembre 1821 (il 30 ottobre secondo il calendario Giuliano allora in uso in Russia) e muore a San Pietroburgo il 9 febbraio 1881. Dunque oggi ricorrono i duecento anni dalla nascita dello scrittore russo e, inoltre, quest’anno si sono celebrati i 140 anni dalla morte.

La sua stessa vita è un romanzo: la madre muore che Fëdor ha 16 anni, dopo due anni tocca al padre, ubriaco e violento, forse per mano dei contadini che aveva alle dipendenze e che vessava di continuo. Alla notizia della morte del padre ha il primo attacco di epilessia, malattia che lo tormenterà a lungo. Studia controvoglia ingegneria militare e viene assunto presso il comando del Genio di San Pietroburgo, ma poco tempo dopo, a 23 anni, dà le dimissioni. Si dedica completamente alla scrittura e sprofonda nella povertà. Nel’49 viene arrestato, probabilmente innocente, per partecipazione ad una società segreta con scopi sovversivi e viene condannato alla pena capitale. Davanti al plotone d’esecuzione gli viene comunicata la notizia che la sua pena è commutata ai lavori forzati in Siberia a tempo indeterminato. Qui per quattro anni lavora l’alabastro, trasporta tegole e spala neve. E riscopre il Vangelo. In prigione concepisce Delitto e castigo. Quella prigionia è un inferno popolato da gente della più bassa risma (da questa esperienza nascerà Memorie dalla casa dei morti). La pena gli viene convertita nuovamente: per due anni dovrà prestare servizio nell’esercito di stanza in Siberia.

Una volta conclusa questa parentesi militare si sposa e fa ritorno in una cittadina vicina a Pietroburgo. Ricomincia a scrivere alacremente, fonda la rivista Il tempo con il fratello poi chiusa per ordine dello Zar (altre ne fonderà in futuro). Si innamora di Apollinarija Suslova tanto da abbonare la moglie malata di tisi per un certo periodo e girare l’Europa con l’amante che poi lo rifiuterà per un altro uomo. Nel ’64 muoiono la moglie e il fratello che gli lascia enormi debiti. Compie un viaggio in Europa e sperpera ingenti somme alla roulette (era un ludopatico, dipendenza magistralmente descritta in Il giocatore). Nel ’67 sposa la sua stenografa (a lui tanto affezionata da arrivare a vendere la fede nuziale per far fronte ai suoi debiti) e l’anno dopo nasce la figlia Sonja che vivrà solo tre mesi. Poi nasceranno altri tre figli, l’ultimo morirà in modo prematuro. L’attività di scrittore ed editore è ininterrotta. Nel ’78 è eletto membro dell'Accademia delle Scienze di Russia nella sezione lingua e letteratura. Inizia una fase della sua vita più agiata. Scrive I fratelli Karamazov, ultimo suo capolavoro. In pochi giorni vengono vendute circa 1.500 copie. Muore improvvisamente per l’aggravarsi di un enfisema il 28 gennaio del 1881. Poco prima di morire chiederà che ai figli venga letta la parabola del figliol prodigo durante il loro percorso educativo. Nello stesso mattino del decesso, la moglie consegna al marito, che ne aveva fatto richiesta, un Vangelo che apre a caso. La moglie legge: “Ma Giovanni lo trattenne e disse: io devo essere battezzato da te e non tu da me. Ma Gesù gli rispose: non trattenermi... “. Dostoevskij commenta: “Senti Anja, 'non trattenermi' vuol dire che debbo morire”.

Le tematiche, i percorsi esistenziali e quindi artistici di Dostoevskij sono molteplici, intricati e poliedrici. Perciò ogni sintesi possibile riuscirebbe fallace. Allora lo vogliamo qui ricordare accennando ad un solo tema presente in più opere, un topos letterario già diffuso negli ambienti letterari di quel tempo: l’uomo superfluo. Scrive Igor Sibaldi: “l’uomo superfluo era colui che per ennui [noia], per fatalismo, o magari per troppa acuta percezione della tetraggine politico-sociale-esistenziale del suo tempo si limitava a prendere atto di tale immensa ricchezza nascosta nel suo intimo, e non traeva alcuna conseguenza pratica, soffrendo però acutamente, al tempo stesso, del suo fallimento” (Introduzione  a Memorie dal sottosuolo, Mondadori, 2020, p. X).

Un uomo superfluo perché non sposta l’ago della bilancia in niente, amico e nemico di nessuno, incolore e neutro nell’azione, nel mondo esterno a lui, ma profondamente individualizzato nel suo intimo dove si agita un cosmo di riflessioni e stati d’animo dei più disparati: vendetta, pentimento, slanci di generosità, pigrizie, sogni grandiosi, piccinerie, meschinità, ipersensibilità e freddezze glaciali. Eppure quest’uomo, mediocre perché fallito e che potrebbe essere il prodromo de L’uomo senza qualità di Robert Musil (1880-1942), è amato da Dostoevskij dal momento che in tale personaggio – centrale soprattutto in Delitto e castigo, in Memorie dal sottosuolo e in Note invernali su impressioni estive – c’è qualcosa di autentico seppure mai attualizzato, mai venuto alla luce in modo definitivo.

È un’eterna promessa mai compiuta, un uomo tra parentesi, un sognatore che rimanda, secondo l’autore, ai poveri in spirito dei Vangeli. È un ribelle inconcludente e bilioso ma che con purezza persegue, tra mille dubbi e tentennamenti, la verità, seppur non riesca mai a concretarla perché gli mancano le virtù, in primis la fortezza. È colui che ha lo sguardo limpido e, seppur pochi istanti, vede tutto con nitore ipertrofico, ma gli difetta la forza di vincere i propri feroci vizi, le proprie abissali bassezze affinchè il pensiero e l’intenzione trascendano in azione. Il carcere in cui è rinchiuso è stato costruito da lui stesso, il suo esilio dalla vita autentica è volontario.

Gli uomini inutili sono “individui smarriti tra la propria angosciosa ricerca di una verità che illumini davvero la via e uno iato tra loro stessi e la ‘maledetta realtà’ che nulla, nel loro destino di ‘superflui’, riesce mai veramente a colmare” (ibidem). Sono uomini spaccati a metà tra la sete indomabile di assoluto e l’irrilevante risultato concreto di tanto anelare all’infinito.  In mezzo c’è la loro estesa meschinità, la loro mancanza di coraggio, la loro viltà, compagne costanti di interminabili giorni febbricitanti e ossessivi, spettatrici di una disgustosa commiserazione esistenziale. Il riscatto però, secondo il Nostro, non può che venire dalla fede in Cristo (ne Le memorie dal sottosuolo la sezione dedicata a tale resurrezione fu cancellata dai censori). Ne Le memorie una prostituta bacia, con un bacio di vero amore, quest’uomo inutile, ma lui, seppur invaghito, la scaccia in malo modo usando violenza perché dietro quel bacio si mostra “l’abbagliante incontrovertibile possibilità di tutto il ‘bello e il sublime’ che da quarant’anni popolava i suoi sogni” (Ibidem). L’amore può liberarti, ma poi tocca a te ferirti e morire ogni giorno nella vita reale non per vivere di sogni, ma per vivere i sogni. La chiamata alla vera vita è intollerabile per l’uomo superfluo che alla fine preferisce sprofondare nel suo buio sottosuolo, ma al calduccio, rinchiuso in una vita sì a misura di mediocrità, ma assai più comoda e meno rischiosa.

Banale a dirsi ma tutti noi, chi più chi meno, custodiamo nel nostro intimo questo uomo inutile quando preferiamo la comodità del peccato rispetto allo sforzo della santità, quando l’altezza della perfezione richiesta da Gesù ci fa venire i brividi, quando il mare aperto delle virtù ci schianta di terrore. Lo siamo ogni volta che ci curviamo sulle nostre minutaglie, quando avviciniamo l’orizzonte ai nostri desideri e non a quelli di Dio, quando scegliamo il cabotaggio vicino a coste amiche piuttosto che percorrere sentieri marini inesplorati. Siamo inutili come uomini quando siamo inutili come credenti, ossia quando sfuggiamo alla nostra identità che si chiama vocazione alla santità, quando non vogliamo far morire il peccato in noi e dunque noi moriamo nel peccato.