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JIHAD

Dieci anni dopo il Bataclan la Francia non ha fermato l'islamismo

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Il più grave attentato della storia recente francese veniva compiuto dai jihadisti esattamente dieci anni fa a Parigi. Il terrorismo non è finito, nonostante gli sforzi per combatterlo, si è parcellizzato. Ma soprattutto avanza l'islam politico su tutti i fronti.

Editoriali 13_11_2025
Bataclan, un trauma nazionale (La Presse)

Il 13 novembre 2015, quello consegnato alla storia del terrorismo islamico in Europa, inizierà alle 21:16 a Saint-Denis, con un’esplosione nella quiete anonima di una sera d’autunno e finirà solo alle 00:20 del 14 novembre. Dallo Stade de France al Bataclan, passando per i tavoli dei ristoranti e dei caffè del 10º e 11º arrondissement, correrà la lunga scia di sangue tra Kalashnikov e giubbotti esplosivi che segnerà per sempre quella notte.

Centotrenta persone assassinate — esclusi gli attentatori — e circa quattrocento ferite: è il bilancio del più sanguinoso attentato terroristico della storia di Parigi, e il secondo più grave mai compiuto in Europa, dopo Madrid 2004.
La tragedia avvenne di venerdì, un giorno da sempre temuto dai servizi antiterrorismo, poiché occupa un posto speciale nella vita dei musulmani più ferventi essendo il giorno di culto ed associato a numerose pratiche volte a “rafforza il legame con Allah”.

Le indagini riveleranno che Parigi era stata colpita, ma la mente del massacro si trovava altrove. A Bruxelles. Più precisamente tra gli appartamenti fatiscenti di Molenbeek-Saint-Jean — il quartiere simbolo dell’islamizzazione d’Occidente, quello che gli abitanti delle zone limitrofe chiamano ancora oggi Europistan, a testimoniare non solo la presenza di un gran numero di musulmani al suo interno, ma il fatto che lo Stato non conta più niente, è l’islam a dettare la legge. Là, Abdelhamid Abaaoud e la sua cellula avevano tessuto una trama del terrore destinata a non finire. Almeno per ora.
Dopo quel 13 novembre, l’intelligence francese ha subito una vera e propria metamorfosi. La sola Direzione Generale della Sicurezza Interna (DGSI), l’agenzia leader nella lotta al terrorismo, ha aumentato il suo personale del 50%, superando ora i 5mila agenti. Eppure, lamentano, non essere abbastanza. 

Purtroppo, la minaccia resta, ma ha assunto forme diverse. Non si tratta più del terrorismo “proiettato” di dieci anni fa, quando il commando — composto da jihadisti di origine nordafricana, cittadini francesi e belgi, addestrati nei territori dell’allora Stato Islamico in Siria e in Iraq — rientrò in Europa attraverso le rotte balcaniche e poi passando per Bruxelles, per colpire, con una pianificazione logistica significativa, il Bataclan, i caffè e lo Stade de France. Oggi, la minaccia è endogena alla Francia, considerevolmente più giovane, e alimentata senza necessariamente avere “menti”.  Non dimentichiamo che il secondo attentato più letale del periodo 2015-2016 è stato commesso a Nizza il 14 luglio 2016, con un camion a noleggio lanciato contro la folla. Da allora, gli attacchi con coltello sono diventati una delle forme di aggressione più comuni. Sono metodi operativi che riecheggiano l’appello lanciato da Abu Mohammed al-Adnani, ex numero due dell’ISIS, nel 2014, che incitava all’uccisione di, «qualsiasi infedele», con qualsiasi mezzo necessario e ancora oggi la Francia non riesce ad arginare.

Tra il 2015 e il 2019, la Francia è stata presa di mira da cinquanta attentati islamisti che hanno causato 250 vittime. Dal 2020 ad oggi, ogni anno c’è stata la media di due attentati islamisti per circa 15 morti totali. «Allahu Akbar» per le strade di Francia è la litania che si ripete più di frequente.  Al punto che la polizia oltralpe ne parla come di una tendenza: «Sono già state esaminate più di 10.500 segnalazioni nei primi sette mesi dell’anno, 300 la scorsa settimana». I numeri parlano da soli, freddi e inesorabili. Secondo i dati in nostro possesso, la Sottodirezione Antiterrorismo (SDAT), oggi impegnata su 200 fascicoli, ha condotto lo scorso anno 93 indagini legate ad attentati o tentativi di attentato. Nei primi sette mesi del 2025, altri 87 casi si sono aggiunti al carico già imponente. «Sotto un’apparente calma si nascondono profondi disordini: ogni giorno riceviamo segnalazioni da ogni parte del Paese», ha dichiarato il commissario Benjamin Le Pache, responsabile della divisione strategia e supporto operativo. 

Attualmente, Macron ha 5.273 potenziali islamisti che operano nel Paese tra ex combattenti, recenti scarcerazioni o persone radicalizzate dall’“imam di Google”, tutti oggetto di una “registrazione attiva” nel Fascicolo delle Segnalazioni per la Prevenzione della Radicalizzazione di Natura Terroristica (FSPRT). E ogni anno, circa 70 jihadisti, vengono rilasciati dalle prigioni della République.

Dieci anni fa l’inquilino dell’Eliseo non si chiamava ancora Emmanuel Macron. Eppure è lui, in qualche modo, divenuto il padrino di una generazione sempre più giovane di terroristi islamisti cresciuti in Francia, cullati dalle melodie degli anasheed — i canti religiosi musulmani — e nutriti da video di decapitazioni che pretendono di dare un senso sacro alla violenza. Gli agenti sotto copertura lo sanno bene: i loro “clienti” stanno diventando più elusivi, più silenziosi, più difficili da intercettare. Sono i figli del 13 novembre 2015, adolescenti o poco più che bambini, che oggi guardano a quella stagione di sangue con un’esaltazione inquietante. Il boia del professor Samuel Paty ne è l’emblema: un 18enne cresciuto tra imam online e la moschea sotto casa che una mattina si sveglia e ha la forza di decapitare un professore accusato di aver offeso Maometto.

Nessuno può negare che la Francia abbia preso molto seriamente la lotta al terrorismo islamico. I servizi di sicurezza hanno sventato numerosi attentati e ridotto in modo significativo la frequenza degli stessi. Tuttavia, resta quasi intatto il terreno che alimenta l’estremismo. Poco è stato fatto per contrastare la crescente influenza islamista all’interno delle istituzioni o per limitare l’azione dei Fratelli Musulmani sul territorio nazionale. Le presidenze Hollande e Macron hanno scelto di ignorare deliberatamente il fatto che la Francia condivide un confine con il Belgio, divenuto retrovia privilegiata del jihadismo europeo. E nonostante gli sforzi, Parigi non è riuscita a frenare l’avanzata dell’islamismo nelle scuole, nelle università e, come abbiamo più volte documentato da queste colonne, anche nella sfera politica: l’“islamo-sinistra” esiste davvero. 

Il discorso che legittima la visione del mondo jihadista,  si va solo diffondendo a dismisura perché è visto, da una parte politica della Francia, in particolare da La France Insoumise, come il seme della violenza che potrebbe aiutarli a prendere il potere anche senza il peso delle elezioni. E se non arriverà, a breve, una risposta decisa, la crescente influenza dell’islamismo creerà le condizioni per lo scontro. Perché la logica totalitaria che anima il progetto islamico, unita alla sua giustificazione della violenza come strumento legittimo di conquista del territorio, la pone inevitabilmente in rotta di collisione con ogni forma di governo Occidentale. Tollerare l’avanzata dell’islamismo senza reagire significa, in ultima analisi, favorire la nascita di una vera e propria quinta colonna destinata ad alimentare attentati, destabilizzazione politica e nuove forme di violenza.

Quando Macron fu eletto per la prima volta, scelse di celebrare la vittoria davanti alla Piramide del Louvre. Dieci anni dopo quel 13 novembre, quella stessa Piramide riflette l’immagine di una nazione ferita, smarrita in un momento di profondo decadimento politico, lacerata dal terrorismo islamico, segnata da continui attentati anticristiani, da tensioni comunitarie che spingono la popolazione ebraica a spostarsi da est a ovest di Parigi, in fuga da quartieri a maggioranza musulmana. E dopo il museo saccheggiato, è proprio lo specchio di una Francia in frantumi.

Si potrebbe credere che dieci anni bastino per chiudere una ferita collettiva. Ma la Francia non ha più voltato pagina.