Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
San Giovanni Maria Vianney a cura di Ermes Dovico
TRAGICO ANNIVERSARIO

Beirut sfigurata chiede giustizia, a 5 anni dall'esplosione nel porto

Ascolta la versione audio dell'articolo

Il 4 agosto 2020, l'esplosione di un deposito di nitrato di ammonio, nel porto di Beirut, ha devastato la città e provocato 240 morti. A cinque anni non c'è un colpevole, né giustizia. Intervista a un famigliare di una vittima e a padre Abdo.

Esteri 04_08_2025
Beirut, il porto ancora danneggiato nel 2021 (foto di Elisa Gestri)

Alle 17 e 55 di martedì 4 agosto 2020 l’ufficio di polizia del porto di Beirut, Libano, segnala alla vicina caserma dei Vigili del Fuoco un principio di incendio nell’hangar 12, contenente fuochi di artificio. Dieci operatori arrivano sul posto in pochi minuti, ma non fanno in tempo a rendersi conto del problema che alle 18 e 07 due terribili detonazioni ravvicinate li travolgono. A quanto sembra, i fuochi di artificio hanno fatto da innesco a tre tonnellate di nitrato di ammonio, materiale altamente esplosivo  usato come fertilizzante e stoccato da quasi sette anni nello stesso hangar. Il bilancio definitivo delle vittime è pesantissimo: quasi 240 persone morte sul colpo o decedute nei giorni, mesi ed anni successivi, oltre 700 ferite e circa 300mila rimaste senza casa.

L’inchiesta giudiziaria sull’esplosione accerta che il nitrato di ammonio era giunto a Beirut nel 2013 a bordo della nave Rhosus, diretta in Mozambico ma costretta ad entrare in porto per problemi tecnici. Le autorità portuali beirutine avevano negato all’equipaggio il permesso di riprendere il mare, e la Rhosus e il suo carico erano stati abbandonati al porto dalla proprietà. Gli ufficiali del porto avevano avvertito più volte per scritto le autorità della pericolosità del nitrato d’ammonio, depositato nell’hangar senza misure di sicurezza, e perdipiù nelle vicinanze di materiale pirotecnico facilmente infiammabile; perché tali comunicazioni non erano state prese in considerazione dalle autorità competenti?

Il primo giudice a capo dell’inchiesta accusa formalmente di negligenza criminale alcuni dei ministri in carica all’epoca dell'esplosione: il Premier Hassan Diab, i ministri dell’interno, delle infrastrutture, dei lavori pubblici e delle finanze, che di rimando dichiarano di non poter essere perseguiti in quanto protetti dall’immunità parlamentare. Oltre a non collaborare con le autorità giudiziarie, i ministri indagati presentano un’istanza contro il giudice  che è costretto a dimettersi. Il suo sostituto, Tarek Bitar, non ha miglior fortuna nell’accertamento delle responsabilità dell’incidente ed è a sua volta rimosso, per poi riprendere l'inchiesta a distanza di mesi e interromperla di nuovo suo malgrado. Ora, il Ministro della Giustizia libanese ha dichiarato che «il giudice Bitar ha raggiunto le fasi finali del caso, ma non ho informazioni sulle risultanze del suo lavoro e non è mia competenza approfondire».

A cinque anni di distanza l’incidente resta dunque un mistero. Sebbene l’area interessata dall’esplosione sia stata in gran parte riedificata grazie alle ingenti donazioni della comunità internazionale, gli innocenti deceduti nello scoppio non hanno avuto giustizia. I familiari delle vittime non si stancano di commemorare i loro cari il 4 di ogni mese. Ad agosto 2024 una loro delegazione è stata ricevuta in udienza privata in Vaticano da papa Francesco e dal segretario di Stato Parolin.

Che impatto ha avuto e continua ad avere l'incidente su un popolo già duramente provato da guerre e gravissime crisi economiche?

La famiglia di A., trentenne nato in Italia da genitori libanesi originari del Sud, ha vissuto in quei giorni un'esperienza emblematica della rovina materiale, morale, psicologica causata dall'esplosione. "Il 4 agosto 2020 mi trovavo con un'amica in giro per Roma – racconta A. alla Nuova Bussola Quotidiana. «Era un pomeriggio come tanti, e tra una chiacchiera e l'altra  non feci caso al cellulare. A un certo punto, saranno state le sei (le sette in Libano, ndr), mi accorsi di diverse chiamate senza risposta. Alla fine risposi, dall'altra parte del telefono solo un urlo: "Non hai sentito cosa è successo a Beirut?!" La cosa, inizialmente, non mi lasciò scosso. Sono cresciuto sentendo parlare di attentati, autobombe, bombardamenti e mille altre cose che hanno devastato il Levante, dalla Palestina al Libano, dall'Iraq alla Siria. Stavolta, però, era diverso. Le immagini apocalittiche erano agghiaccianti. Telefonammo ai parenti in Libano, stavano bene, ma per tutta la sera ebbi un brutto presentimento. Quella notte, mio padre urlò più volte nel sonno. Forse le immagini dell'esplosione del porto avevano risvegliato in lui scene che risalivano alla guerra civile cui era scampato più volte. O forse ripensava all'invasione israeliana del 1982, a cui era scampato per un pelo partendo per l'Italia».

Le sofferenze della famiglia di A. non erano finite: «Alle undici e mezzo di sera del 5 agosto, il cellulare del mio babbo squillò. Lo sentii balbettare: il suo tono presagiva qualcosa di brutto. Mia sorella corse a dirmi con le lacrime agli occhi: "Zio Amin... È morto". Com'era possibile? Mia madre ci vide tremare, ma non poteva  immaginare che il suo unico fratello, sentito il giorno prima, fosse improvvisamente scomparso. Glielo dissi io, e da allora ho impressa nella testa l'immagine indelebile del suo sguardo disperato. Mio zio era morto d'infarto: il suo cuore non aveva retto alla vista dei corpi di parenti e amici bruciati il giorno prima  a causa dell'esplosione».

Chiediamo ad A. se, a suo avviso, le vittime di questo tragico episodio avranno giustizia: «Probabilmente non ci sarà mai un colpevole, esattamente come, da decenni, resta impunita ogni altra sciagura in Medio Oriente. Mi chiedo come i responsabili di quell'esplosione possano dormire sonni tranquilli».

Facciamo la stessa domanda a Padre Abdo Raad, sacerdote libanese greco cattolico già noto ai lettori de La Nuova Bussola Quotidiana

Padre Abdo, perché le vittime non hanno avuto giustizia? A suo avviso l'avranno mai?
«I familiari delle vittime non hanno ancora avuto giustizia perché il Paese è governato da corrotti: la corruzione e l’abuso di potere sono la causa della mancanza della giustizia. Se i malfattori sono gli stessi  politici che hanno nominato i giudici e possono comprarli e venderli quando vogliono, che giustizia ci aspettiamo? Ha visto mai un criminale o un ladro che giudica sé stesso?  Poi, il sistema giudiziario in Libano ha gravi limiti: lento, costoso, conflittuale tra i diversi gradi di giudizio». 

Detto ciò, oggi sarà intitolata una strada alle vittime dell'esplosione e verranno piantati alberi di olivo; il Ministro della cultura ha dichiarato quel che resta dei silos in cemento armato, simbolo del porto distrutto, "monumento storico". Anche questi sono modi di fare giustizia, segnali di speranza per il futuro: magari con altri politici e con un sistema giudiziario riformato si potrà fare un giorno giustizia vera e propria. Naturalmente, l’ultima parola spetta sempre a Dio, davanti al quale ognuno verrà giudicato secondo le sue opere.