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CINA

Xi Jinping, un'assenza ideologica dal G20

Oltre alla passerella dei potenti della terra, confluiti a Roma per il G20 (che inizia oggi), notevoli sono le assenze. Manca Vladimir Putin e soprattutto è assente Xi Jinping. Il presidente cinese, protagonista degli scorsi summit, sta dando una stretta al capitalismo interno e agli scambi internazionali della Cina. Sta probabilmente dando inizio a una nuova fase molto più comunista.

Economia 30_10_2021
Xi Jinping

La passerella dei grandi della terra è iniziata ieri, a Roma, in vista del G20. L’attenzione della stampa era tutta sul presidente americano Joe Biden, che ha incontrato Papa Francesco, Mario Draghi e poi Emmanuel Macron, il presidente francese con cui era in corso una lite sulla vendita dei nuovi sottomarini nucleari all’Australia (vendita “scippata” alla Francia dagli Usa). Tuttavia, notizia ancor più eclatante è quella sulle assenze. Mancano sia Vladimir Putin che Xi Jinping, che mandano ministri a rappresentare i loro Paesi. I due leader di Russia e Cina saranno assenti sia nel G20 che nella successiva conferenza sul clima di Glasgow. Il motivo ufficiale dell'assenza di Putin è un'abbondanza di impegni in Russia. Quello ufficiale per l'assenza di Xi, è il divieto di muoversi in tempo di pandemia. Ma i motivi non ufficiali sono abbastanza facilmente intuibili. Per Putin è presto detto: pessimi rapporti con gli interlocutori occidentali, a partire dagli Stati Uniti di Joe Biden. Nel caso di Xi, non c’è solo questo.

Nei G20 dell’era Trump, la presenza del presidente cinese era quasi rassicurante per i leader europei. Paradossalmente il regime di Pechino, in piena guerra commerciale con gli Usa, poteva permettersi di dare lezioni di libero scambio. Occorreva una certa fantasia per crederci, considerando che la Cina era ed è tuttora uno dei sistemi più chiusi e protezionisti del mondo. Ma nell’era post-Covid e post-Trump, la Cina sta cambiando radicalmente il suo volto. Dietro all’assenza di Xi Jinping c’è una serie di attriti con i Paesi che ritengono la Cina responsabile per l’esplosione iniziale della pandemia: per i suoi silenzi, la sua reticenza a collaborare con le indagini e gli studi, per la vicenda del laboratorio di Wuhan che non è ancora chiara. Sono tutte accuse a cui la Cina risponde duramente, fino a ingaggiare una guerra commerciale con l’Australia (che si è dotata dei sottomarini nucleari di cui sopra, proprio per questo motivo).

Ma c’è ancora dell’altro: il regime comunista cinese sta cambiando drasticamente il suo rapporto con il capitalismo. E di conseguenza anche con i suoi ex partner commerciali. Già si parla di una netta separazione della Cina dai grandi network (a partire dai social network) occidentali. Pechino vuole una sua rete praticamente autarchica. Ora la lotta alla "irrazionale espansione del capitale" riguarda però anche l'imprenditoria autoctona.

Con il commercio e con i contatti internazionali, in Cina, oltre ai capitali, stavano entrando idee straniere e religioni straniere (il cristianesimo è ritenuta la principale di queste "minacce", assieme all'islam) a cui il Partito sta rispondendo con la "sinizzazione", l'adattamento di ogni idea e di ogni culto alle tradizioni cinesi, sia comuniste che confuciane. La sinizzazione prevede una trasformazione anche estetica. Il neogotico dei cristiani e lo stile arabo degli edifici di culto musulmani, i templi taoisti e quelli buddisti, sono distrutti o trasformati in pagode, conformi ai nuovi canoni estetici. La stretta sui grattacieli rientra in questa stessa logica. 

È infatti notizia di questo mese che, per motivi urbanistici, una nuova legge contro “la brutta architettura” vieta alle città con una popolazione inferiore ai 3 milioni di abitanti di costruire grattacieli. Una legge recente, già vietava di costruire nuovi edifici più alti di 500 metri. Dietro al divieto di costruire palazzi troppo alti nelle città “piccole” (secondo gli standard cinesi) c’è anche una motivazione etica: sono ritenuti non necessari, dunque sintomo di vanità delle autorità e degli imprenditori locali. I grattacieli, dalla fine dell’Ottocento, sono sempre stati il simbolo del capitalismo americano. In Cina hanno iniziato a costruirne da quando il sistema misto mercato-Stato, voluto da Deng Xiaoping dal 1979, ha iniziato a produrre i suoi effetti. I più alti palazzi del Paese si trovano a Shanghai, Shenzhen, Tientsin e Canton, tutti porti commerciali che sono diventati zone economiche speciali, i nuovi centri del capitalismo cinese. Ora, per motivi non solo estetici, il regime di Xi Jinping, vuole dare un giro di vite.

La notizia è coerente con la vera e propria repressione nei confronti dei grandi capitalisti cinesi, costretti a conformarsi con il volere del Partito. Jack Ma, fondatore di Ali Baba (equivalente cinese di Amazon), è scomparso per giorni dalla circolazione, durante i quali è stato “redarguito” in modo così persuasivo da rinunciare ai suoi piani. Jack Ma ha dovuto lasciare la proprietà di azioni nei media cinesi. In precedenza, sempre per volontà del regime, era stata bloccata la quotazione in Borsa di Ant, il suo braccio finanziario. Alla fine del 2020, Xi Jinping aveva lanciato la campagna per “prevenire l’irrazionale espansione del capitale”, una terminologia comunista che nella pratica si è tradotta in una serie di misure anti-trust, soprattutto ai danni delle aziende di alta tecnologia e dell’informazione. La campagna ha provocato un crollo delle azioni di borsa delle big-tech cinesi e provocato grandi preoccupazioni fra gli investitori stranieri.

Jack Ma è comunque un imprenditore pur sempre fedele al Partito Comunista, almeno ufficialmente. Un altro miliardario che addirittura si permetteva critiche, l’imprenditore agricolo Sun Dawu, è stato invece condannato a 18 anni di carcere perché, così recita la sentenza: «Con le sue dichiarazioni pubbliche avventate, ha turbato l’ordine pubblico e creato fastidi».

La campagna contro il capitalismo cinese può segnare l’inizio di una nuova fase. Anche Lenin aveva accettato grandi iniezioni di mercato nel nascente sistema sovietico. Ne era nato un sistema misto, di brevissima durata (1922-27) chiamato Nuova Politica Economica. Aveva garantito, se non altro, di uscire dalla fame (nel 1921, una prima grande carestia aveva ucciso milioni di russi e ucraini) e di gettare le basi della nuova industrializzazione. Poi, quando Stalin consolidò il suo potere sullo Stato sovietico, varò la pianificazione centrale e pose fine all’esperimento precedente. L’equivalente della Nuova Politica Economica cinese sta durando, invece, dal 1979 e pareva ormai irreversibile. Ma gli ultimi sviluppi, fra Covid e affermazione del potere personale di Xi, fanno presagire un cambio di passo. Magari non rapido e radicale come quello imposto da Stalin il secolo scorso, ma comunque molto più comunista di quel che si pensi. Il grande assente di questo G20 potrebbe non apparire più come finora lo abbiamo conosciuto.