Natività in Palestina, tra speranze e nuove violenze
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Gioia per i riti religiosi, ma anche dolore per la situazione odierna: questo il Natale dei cristiani in Palestina. Il cardinale Pizzaballa ha richiamato ad avere fede nel Salvatore. Intanto prosegue la spirale di violenza che coinvolge israeliani e palestinesi.
È stato un Natale segnato da gioia e speranza, ma anche da angoscia e attesa, quello vissuto dai cristiani di Terra Santa. Un Natale che gli abitanti di Gaza e della Palestina hanno provato ad immaginare diverso, nonostante la guerra, la violenza e l’incertezza quotidiana. Al termine della Messa di mezzanotte, dalla chiesa di Santa Caterina, affiancata alla grotta della Natività a Betlemme, il patriarca latino di Gerusalemme, Pierbattista Pizzaballa, secondo la tradizione, ha portato in processione il Bambinello per deporlo nella mangiatoia. Durante il passaggio, lungo la navata centrale, molti fedeli hanno teso le mani in segno di vicinanza e preghiera. Nei loro occhi, però, c’erano le lacrime di un popolo ferito. Un dolore che, nelle parole e nei gesti della celebrazione, ha dato voce alla sofferenza causata dalla guerra e dalla violenza, dall’odio che nasce dalla paura, dalla diffidenza e dall’indifferenza.
La comunità cattolica di Gaza ha festeggiato un Natale in sordina. È stato un Natale difficile, come quello di duemila anni fa. Come la fuga in Egitto della Sacra Famiglia, da Betlemme, proprio attraverso Gaza, da dove, oggi, i palestinesi sono costretti ad abbandonare la loro terra. «Non abbiate paura, dobbiamo essere uniti e forti. Abbiate fede in colui che è nato, il Salvatore», ha detto il cardinale Pizzaballa durante l’omelia. Un messaggio che richiama la necessità di fermare un conflitto che divide israeliani e palestinesi, e che trasforma le mani da strumenti operosi per creare prosperità e opere di solidarietà, in strumenti di violenza. Le parole, che dovrebbero consolare e incoraggiare, diventano espressioni di odio, come quelle utilizzate recentemente da alcuni ministri del governo di Benjamin Netanyahu.
Pizzaballa ha più volte denunciato l’egoismo e l’orgoglio che soffocano il bene di cui l’uomo è capace. «Non bisogna soccombere. È ora di porre fine a questa assurdità, di porre fine alla guerra e di mettere al primo posto il bene comune delle persone», ha scritto il patriarca insieme a Teofilo III, il patriarca greco-ortodosso di Gerusalemme, in occasione della loro visita a Gaza lo scorso luglio, il giorno dopo l’attacco israeliano alla parrocchia latina della Sacra Famiglia, che ha causato tre morti e una decina di feriti.
Il Natale, tuttavia, non è stato solo il tempo della denuncia, ma anche un appello alla conversione. Un invito a ritrovare la misericordia, a scegliere l’amore piuttosto che il giudizio, a credere che dalla violenza esista ancora una possibilità di redenzione. Un messaggio ribadito anche da Leone XIV, durante la benedizione Urbi et Orbi. «Il Bambino nato dalla Vergine Maria è colui che ha vinto l’odio e l’inimicizia con l’amore misericordioso di Dio», ha affermato il pontefice, citando poi il poeta israeliano Yehuda Amichai: «Non la pace di un cessate il fuoco, ma quella che arriva quando l’eccitazione è finita e resta una grande stanchezza».
Intanto, i cristiani di Terra Santa continuano a soffrire in silenzio. Due anni di guerra e le inevitabili difficoltà economiche hanno colpito duramente il turismo e i pellegrinaggi, in particolare a Betlemme, favorendo il fenomeno dell’emigrazione e mettendo a rischio una presenza secolare. Eppure, la speranza non si spegne. Secondo l’Ufficio centrale di statistica israeliano, i cristiani in Israele rappresentano l’1,9% della popolazione e sono cresciuti dello 0,7% tra il 2023 e il 2024, raggiungendo le 184.200 unità. Nazaret resta la città con la maggior presenza cristiana (18.900 abitanti), seguita da Haifa, Gerusalemme e Nof HaGalil (in precedenza Nazaret Illit), anche chiamata la nuova Nazaret. In Palestina, invece, i cristiani sono una minoranza in calo: tra Cisgiordania e Gaza si stimano complessivamente tra le 80.000 e le 100.000 persone, in prevalenza cattoliche, concentrate tra Betlemme e Ramallah, con una piccola comunità di circa 1.200 fedeli nella Striscia di Gaza.
Tra i palestinesi lo sconforto e lo scoraggiamento è palpabile. Da oltre settant’anni vivono in una condizione di pesante precarietà. L’esercito israeliano entra nei territori quando vuole, arresta chiunque, mentre la comunità internazionale appare impotente e l’Autorità Palestinese incapace di difendere la sua gente. In questo contesto d’impunità, nei giorni scorsi, alcuni coloni hanno nuovamente fatto irruzione negli spazi adiacenti alla moschea di Al-Aqsa, sulla Spianata delle moschee, a Gerusalemme Est, sotto gli occhi attenti della polizia israeliana. Nel frattempo, in Cisgiordania, proseguono i lavori per la costruzione di una nuova strada coloniale su terreni privati palestinesi ad Al-Zahiriyya, a sud di Hebron. Ma la spirale di violenza non si placa. Un filmato diffuso sui social e dalle televisioni palestinesi mostra un colono israeliano, con un fucile a tracolla, alla guida di un fuoristrada, mentre intenzionalmente investe un palestinese, inginocchiato a pregare sul ciglio della strada. L'incidente è accaduto nelle vicinanze del villaggio di Deir Jarir, a nord di Ramallah. La “risposta” non si è fatta attendere. Due israeliani sono stati uccisi e altre due persone sono rimaste ferite nel corso di un attacco terroristico nel nord di Israele, nella zona di Beit She'an, una città vicina al confine settentrionale con la Cisgiordania. L'aggressore, un trentasettenne originario di Qabatiya, città non lontana dal luogo dell’attentato, è stato ferito e trasportato in ospedale. Il ministro della Difesa, Israel Katz, ha dichiarato di aver ordinato alle IDF di agire «con forza e immediatamente» contro il villaggio natale dell’attentatore.
Una festività, dunque, quella natalizia, che in Terra Santa resta sospesa tra violenza, angoscia e speranza. Un Natale che continua a interrogare le coscienze e a chiedere, con forza, la fine della guerra e il ritorno alla normalità.

