Una battaglia dopo l'altra, Hollywood gioca alla rivoluzione
"Una battaglia dopo l'altra", già promosso "film dell'anno", regia di Paul Thomas Anderson, con un cast stellare... è un pistolotto ideologico woke. In cui i militari sono suprematisti bianchi e i buoni sono rivoluzionari di professione marxisti.

Quando i sinistri perdono le elezioni danno fiato alle trombe. Anche - e soprattutto - negli Usa. Poiché le fucilate da quelle parti si sono rivelate un boomerang, si torna ai vecchi sistemi, molto più efficaci. E veniamo a noi. Poiché sui social da qualche settimana è partito un tam-tam (“Il film dell'anno!”) a proposito di Una battaglia dopo l'altra, mega produzione hollywoodiana tratta da un romanzo di Thomas Pinchon (che, visto il tema del film, dovrebbe essere una specie di Scurati americano) con cast faraonico (Leonardo Di Caprio, Sean Penn, Benicio Del Toro...), ho deciso di guardarlo. Dico subito che il “capolavoro” di Paul Thomas Anderson a me è parso un guazzabuglio senza capo né coda, ma io non sono un critico, né un cinefilo, né, soprattutto, di sinistra.
Infatti, saranno i sinistri ad apprezzarlo più degli altri; il gregge, incuriosito dal battage, magari resterà perplesso ma intanto il biglietto lo avrà pagato. Da quel che mi è parso di capire, la trama comincia con un'America del futuro, un futuro così prossimo che sembra oggi. Un gruppo rivoluzionario marxista bene organizzato e provvisto di lauti fondi (infatti, i personaggi principali fanno i rivoluzionari di professione e possono contare su una vastissima rete di complicità). Il film si apre con costoro intenti a liberare a mano armata gli immigrati illegali trattenuti alla frontiera messicana in attesa di identificazione. Ogni riferimento alla politica di Trump è, naturalmente, puramente casuale. Nel prosieguo dell'attività rivoluzionaria, ecco un bell'attentato dinamitardo al domicilio di un deputato antiabortista. Ogni riferimento a Vance (e, perché no, a Kirk) è, anche qui, del tutto fortuito.
Il resto è puro woke: il biondo Di Caprio se la fa con una collega di imprese sovversive, una donna di colore che gli sforna una bambina mulatta prima di andarsene all'avventura. Ma viene catturata dal cattivo del film, un colonnello bianco e razzista il quale, visto che c'è, non resiste alle grazie della pasionaria, per cui fino alla fine non si capisce se la bambina mulatta è sua o di Di Caprio. La pasionaria in questione però, prima di sparire dal film, accetta il programma protezione in cambio dei nomi di complici. Il cattivo (Penn) comincia così a procedere allo smantellamento della rete rivoluzionaria. La cosa è lunga ma intanto il cattivo si è messo in luce e viene cooptato in una cupola ultrasegreta di altissimi personaggi che sono suprematisti bianchi, una specie di Ku Klux Klan di massimo livello. E che probabilmente sono pure papisti, visto che in una scena pregano in coro San Nicola. Boh, sia come sia, costoro a un certo punto scoprono che il cattivo colonnello ha copulato con una afroamericana (chissà perché ai Blm questo termine sembra più rispettoso del vecchio “negro”, così come gli indiani sono diventati “nativi americani”: in ogni caso, ciò la dice lunga su chi comanda anche il linguaggio), e perciò lo fanno fuori senza tanti complimenti. Indi, mandano un sicario a eliminare anche il frutto del peccato (in senso suprematista, s'intende).
Vi dico subito che va a finire bene, perché i “buoni” (secondo il romanziere e il regista) prevalgono e i cattivi restano scornati. Hasta la revolución siempre, le scene conclusive lasciano intendere che la lotta continua e prima o poi il Sol dell'Avvenire splenderà anche sull'America oscurantista che ancora osa votare a destra. Se, incuriositi da una stampa complice (“già primo in classifica!”, “è costato x ma ha già incassato x elevato a n!”, e via pompando), volete andare a vederlo lo stesso, almeno sappiate che è pura propaganda dem, allettante per l'uso di attori di grido (che prima di diventare miliardari fari di “cultura” friggevano patatine dall'odiato McDonald's, da quella stessa “cultura” eretto a simbolo del capitalismo, anche se ci mangiano i bambini e gli immigrati; come se Hollywood non lo fosse davvero...).