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Trump prende tempo sull'Iran, Israele ha fretta di chiudere

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In due settimane gli Usa decideranno se intervenire direttamente nel conflitto. Ma gli israeliani puntano a colpire il sito atomico iraniano di Fordow senza aspettarli, pressati dalle ripercussioni economiche della guerra, non meno che da considerazioni strategiche.

Esteri 21_06_2025
(AP Photo/Alex Brandon) Associated Press / LaPresse Only italy and Spain

Difficile decifrare quali iniziative assumerà Donald Trump nei confronti dell’Iran. Dopo aver ammonito il regime degli ayatollah ad “arrendersi senza condizioni”, ha successivamente affermato di volersi prendere un paio di settimane per decidere se intervenire o meno al fianco di Israele nella guerra.

Nel frattempo i preparativi statunitensi per un possibile intervento proseguono con il ritiro dei civili dalle ambasciate e dalle numerose basi militari statunitensi nel Golfo Persico e con l’invio in mare delle navi americane ancorate nel porto di Manama, in Bahrain, sede del comando della 5a Flotta. Inoltre, l’elevato numero (tra 50 e 60) di aerei da combattimento israeliani in volo quasi a tempo pieno sui cieli iraniani, a oltre 1.500 chilometri dalle basi in Israele, induce a ritenere che numerosi aerei cisterna statunitensi volino sull’Iraq per “fare il pieno” ai caccia israeliani che nella loro aeronautica dispongono di meno di una decina di aerei di questo tipo.

Le Forze di difesa israeliane (IDF) hanno dichiarato ieri mattina che più di 25 aerei hanno colpito e distrutto più di 35 strutture utilizzate per lo stoccaggio e il lancio di missili nelle aree di Tabriz e Kermanshah, nell'Iran occidentale. Le forze di Tel Aviv sono concentrate a distruggere missili balistici e soprattutto i lanciatori mobili di tali armi per ridurre la pressione delle ondate di missili balistici iraniani che insieme ai droni stanno colpendo duramente Israele, eludendo sempre più spesso le difese aeree israeliane, considerate formidabili ma già ampiamente “bucate” dai missili iraniani nell’aprile 2024.
Il Wall Street Journal ha scritto, citando un anonimo funzionario statunitense, che Israele starebbe esaurendo le scorte di intercettori Arrow, sollevando dubbi sulla capacità dello Stato ebraico di contrastare ancora a lungo i missili balistici iraniani se il conflitto non dovesse chiudersi a breve.

Gli Stati Uniti sarebbero a conoscenza della situazione “da mesi” e Washington ha potenziato le difese di Israele con sistemi terrestri (THAAD), navali (AEGIS con missili Sm3 imbarcati sui cacciatorpediniere classe Burke) e aerei. Dall’escalation del conflitto il Pentagono ha inviato ulteriori mezzi di difesa missilistica nella regione ma la preoccupazione è che anche gli Stati Uniti stiano assottigliando le scorte. Specie considerando l’intenso impegno di missili da difesa area contro gli Houthi dello Yemen e per rifornire negli ultimi tre anni l’Ucraina.

Le difficoltà di Israele a difendere il proprio spazio aereo per carenza di missili spiegherebbero, al di là dell’obiettivo di colpire con gigantesche bombe a penetrazione il sito nucleare iraniano di Fordow situato in profondità sotto una montagna, le continue pressioni espresse anche dal premier israeliano Benjamin Netanyahu, affinché gli Stati Uniti si uniscano allo Stato ebraico nella guerra all’Iran.

L’intervento diretto delle forze statunitensi comporterebbe la rappresaglia (già preannunciata) iraniana alle loro basi in Medio Oriente. Un aspetto che vedrebbe quindi coinvolte diverse nazioni arabe che ospitano basi statunitensi tra cui Qatar, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Bahrein, Giordania e Iraq. Sono tutte disposte a ritrovarsi di fatto in guerra con l’Iran? Se così non fosse l’intervento statunitense, oltre al rischio di far esplodere l’intero Golfo Persico, potrebbe provocare una forte crisi nei rapporti tra Washington e le monarchie arabe. 

Come anticipato, il supporto diretto di Washington alle operazioni israeliane sull’Iran si renderebbe necessario anche per colpire in profondità il sito atomico sotterraneo ubicato (si dice) a 90 metri di profondità di Fordow, 20 chilometri a nord-est della città santa di Qom, capitale spirituale dell’Iran. Costruito sotto una montagna, non è vulnerabile alle bombe a penetrazione in dotazione alle forze aeree israeliane e forse solo le bombe la GBU 57/B Massive Ordnance Penetrator statunitensi potrebbero potenzialmente conseguire qualche risultato sganciando gli ordigni dai bombardieri B-2 Spirit americani. In alternativa, se Washington concedesse tali ordigni all’alleato, l’aeronautica israeliana potrebbe sganciare una di queste bombe, dal peso di 14 tonnellate, solo utilizzando un aereo da trasporto C-130, lento e vulnerabile ai missili antiaerei iraniani.

L’Iran ha iniziato a costruire segretamente l’impianto di Fordow dopo aver annunciato ufficialmente la chiusura del suo programma nucleare militare e ne ha riconosciuto l’esistenza solo nel settembre 2009, dopo che Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia hanno diffuso informazioni di intelligence. Situato all’interno di una grande base del Corpo dei Guardiani della Rivoluzione, Fordow è entrato in funzione alla fine del 2011 come sito per l’arricchimento dell’uranio ad alti livelli, capace di ospitare circa 3.000 centrifughe. Nel 2015, nell’ambito dell’accordo sul nucleare (JCPOA), Teheran accettò di interrompere l’arricchimento dell’uranio a Fordow e di convertire l’impianto in un centro di ricerca.

Quando nel 2018, nel suo primo mandato presidenziale, Donald Trump ha ritirato in modo unilaterale gli USA dall’accordo l’Iran ha ripreso le attività di arricchimento a Fordow. Nel 2019, Teheran ha annunciato che avrebbe arricchito l’uranio al 5% e poi al 20%. Nel 2023, l’Aiea ha rilevato la presenza di uranio arricchito all’83,7%, un livello vicino a quello necessario per costruire armi nucleari (90%). Allora, le autorità iraniane hanno riferito di “fluttuazioni involontarie” dei livelli di arricchimento. Secondo gli analisti gli impianti di Natanz, colpiti dagli israeliani nei giorni scorsi, sono utilizzati per l’arricchimento su vasta scala ma a basso livello dell’uranio, Fordow invece rappresenterebbe una sorta di garanzia di sicurezza per l’Iran, garantendo in un sito considerato inattaccabile la possibilità di disporre rapidamente di uranio arricchito idoneo a produrre armi nucleari.

Ieri gli israeliani hanno colpito anche il reattore nucleare di Arak ma lo stesso Vladimir Putin ha precisato che il potenziale nucleare iraniano è in realtà rimasto intatto, con un riferimento ai bunker in profondità nel sottosuolo realizzati da Teheran per proteggerlo. Mosca ha le idee chiare sul programma atomico iraniano poiché la centrale nucleare di Busher e la gran parte degli impianti iraniani sono stati realizzati da società e tecnici russi.

Mosca si oppone inoltre decisamente al cambio di regime a Teheran, vero obiettivo di USA e Israele e definito "inaccettabile" dal portavoce del Cremlino Dimitry Peskov. Come ha scritto il Financial Times, Fordow non è solo un impianto di arricchimento dell’uranio ma una dichiarazione politica e strategica di Teheran: cioè la garanzia di poter produrre armi nucleari in caso di necessità.

Due funzionari israeliani hanno detto ieri al sito Iran International”, legato all'opposizione iraniana, che l’attacco a Fordow potrebbe cominciare nel giro di 48-72 ore senza l'aiuto degli Stati Uniti. Nel frattempo i raid degli aerei di Tel Aviv hanno ucciso un altro scienziato iraniano (il decimo dal 12 giugno) coinvolto nel programma nucleare. Notizia che confermerebbe la fretta di Israele di chiudere la guerra, dettata non solo dalle condizioni strategiche ma anche da quelle economiche.

Secondo i dati raccolti dal sito economico israeliano Calcalist, Tel Aviv ha speso 67,5 miliardi di dollari per la guerra a Gaza e in Libano iniziato nell’ottobre 2023 e almeno 7 miliardi (735 milioni di dollari al giorno) per il conflitto in Iran iniziato il 12 giugno. Una cifra indicata anche da Reuters e Guardian, come ricordava ieri l’agenzia Ansa. Il massiccio richiamo di riservisti sta riducendo la forza lavoro e la produttività economica mentre il bilancio del Ministero della Difesa è quasi raddoppiato in soli due anni ed assorbe ora quasi il 7% del Pil.
Gli analisti economici valutano che tali costi si ripercuoteranno a lungo sui servizi pubblici, in particolare sanità e istruzione mentre il Ministero delle Finanze ha rivisto le previsioni di crescita del Pil per il 2025 dal 4,3% al 3,6%.



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