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ERITREA

Sofferenza e perdono nel viaggio di Farisa

Il racconto di Farisa, una ragazza di trent'anni, cattolica, scappata dall'Eritrea per raggiungere Israele. Le sofferenze e le violenze subite dai beduini del Sinai. E il frutto di quelle violenze è un figlio. Che ha accolto come un dono di Dio e chiamato Emanuele, "Dio con noi": «Perché questo bambino è la più bella compagnia che Dio fa alla mia vita».

Articoli tematici 17_01_2013
Il dramma dei profughi eritrei

Da Gerusalemme.

“E' un inferno, un inferno!” Farisa ha ancora negli occhi tutte le sofferenze che ha provato nel suo viaggio disperato dall'Eritrea in Israele. Come lei, sono tanti i profughi africani caduti nelle mani dei beduini del Sinai. Il mercato di uomini che da anni affligge la biblica catena montuosa tra Egitto e Israele riempie spesso le pagine dei giornali. Inascoltate tutte le richieste della Comunità Internazionale, accade spesso che Eritrei ed Etiopi in fuga verso il mondo arabo (o Israele) vengano catturati.

In alcuni casi i rapitori chiedono semplicemente un riscatto ai familiari in cambio della libertà, altre volte gli sventurati vanno a incrementare l'enorme traffico di organi. Un business enorme, dove a essere coinvolte sono migliaia di persone. Centinaia di uomini sono stati uccisi dalle guardie Egiziane, mentre cercavano di raggiungere Israele. Ad altri è stato negato il diritto d'asilo, una volti giunti a destinazione.
I numeri parlano di 50.000 persone che hanno provato a varcare il confine, oggi ben tutelato dal muro voluto dal governo di Netanyahu (ma la tratta di uomini prosegue).
Più di 10.000 le vittime dei predoni, circa 3.000 persone scomparse nel nulla. A parte alcuni musulmani del Darfour, la maggioranza dei profughi è cristiana. Proprio come Farisa.

Lei è originaria dell'Eritrea, scappata dal suo paese per tentare fortuna nella Terra Promessa. A casa ha lasciato solo due genitori anziani “e una terra senza lavoro, con nessuna prospettiva per il futuro”. Così un giorno, “quando proprio – dice – non ne potevo più – arriva la decisione di abbandonare tutto e andare in Israele. “Eravamo un piccolo gruppo partiti da Asmara più di due anni fa, senza documenti e con pochi soldi nella borsa”. La strada, lunghissima, da percorrere per lunghi tratti a piedi. “Non mi ricordavo più quanti chilometri abbiamo percorso con lo zaino sulle spalle – racconta – evitando tutte le strade principali per non venire catturati”.

Farisa ha viaggiato con mezzi di fortuna, prima in Sudan e poi in Egitto. “Viaggiavamo di giorno, per non accendere le luci delle torcie e venire identificati”. La paura di finire in galera ha accompagnato questa donna trentenne per lunghi giorni di apprensione e “tanta, tanta fame”. “E se non avessi avuto la compagnia della fede, non so se sarei arrivata fin qui”.
“Ma sono sicura - continua a ripeterlo mentre ripensa con commozione ai quei momenti – che il Signore era con me in quei momenti”.

Farisa ci racconta oggi il suo incredibile viaggio da un centro per profughi in Israele, dove tante persone riescono ad arrivare dopo aver corso pericoli enormi. “Sul Sinai siamo stati catturati – prosegue mentre la voce diventa rotta dall'emozione – e i beduini ci hanno portati via con loro”. Ma non sapeva assolutamente dove si trovava. Ricorda solo una stanza buia, dove è stata violentata più volte. “Quella notte credevo di morire. Non riuscivo nemmeno a vedere la faccia di chi stava abusando di me. Mi sentivo completamente impotente”. Poi, dopo diversi giorni passati tra la vergogna e il rancore, la liberazione tanto attesa.

Farisa riesce a raggiungere Israele, ma vede la sua pancia diventare sempre più gonfia. “Ho capito che stavo aspettando un bambino, che la vita nel mio grembo era il frutto di quella violenza”. Accanto al dolore e alla rabbia dei primi tempi, Farisa scopre in quei mesi di attesa anche il perdono. “Guardando il mio pancione, sentendo quei calci di un bambino desideroso di venire al mondo che a volte mi facevano male, ero contenta”. E poi, a un certo punto: “Mi sono accorta che non odiavo chi mi aveva fatto del male, e cominciavo a ringraziare il Signore, sempre”.

Oggi tiene felice in braccio quella piccola creatura, mentre gli sorride. “E sa come l'ho chiamato? Emanuele, che significa Dio con noi. Perchè questo bambino è davvero la più bella compagnia che Dio fa alla mia vita, tutti i giorni”.