Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Venerdì Santo a cura di Ermes Dovico
PIANO INCLINATO

Se l’aborto è una pizza take away

Marche, l’assessore Giorgia Latini pensa di proporre una revisione delle linee ministeriali sulla Ru486 e di aiutare le donne in gravidanza. Ma le femministe di “Non una di meno” rispondono con la richiesta dell’«aborto per tuttu» (sic!) e della pillola «da asporto». Sembra una parodia della vecchia propaganda abortista, e invece è la cultura mortifera che mostra il suo vero volto.

Editoriali 15_01_2021

Se non si trattasse di una richiesta vera, si potrebbe ridere per l’ironia del messaggio, che smonta da sé - come un autogol verbale - la richiesta stessa. Sì, perché la trovata del gruppo “Non una di meno transterritoriale Marche” che chiede l’aborto per tutti, anzi «per tuttu» (non è un refuso, bensì una delle bizzarrie della neolingua Lgbt), e soprattutto la «Ru486 da asporto e teleaborto», potrebbe apparire ad un alieno come una parodia delle stesse istanze abortiste. E invece no, si è fuori dall’ironia.

Gli slogan di cui sopra sono stati usati dal gruppo ultrafemminista a seguito delle parole pronunciate dall’assessore regionale alla Cultura e alle Pari opportunità, Giorgia Latini, già deputata della Lega, in una breve intervista mandata in onda il 2 dicembre 2020 dal Tgr Marche. Al giornalista che le domandava se la giunta marchigiana avesse intenzione di rivedere le modalità di accesso alla Ru486, la Latini spiegava che l’argomento non era stato ancora trattato ma che «sono stata sempre contraria all’aborto, quindi sicuramente avrò piacere di esprimere questa mia posizione qualora questo tema venisse affrontato in giunta». E manifestava la volontà di un suo possibile ordine del giorno al riguardo.

Si ricorderà che le linee guida sulla Ru486 sono state modificate in piena estate dal ministro Roberto Speranza, con l’estensione del periodo per l’aborto farmacologico alla nona settimana di gravidanza, la possibilità di accedervi - contro ogni ratio legislativa - anche nei consultori e addirittura l’eliminazione dell’obbligo di ricovero ospedaliero, con l’introduzione di un semplice regime di day hospital. Alcune Regioni, come il Piemonte, hanno nel frattempo introdotto delle limitazioni rispetto a questa ulteriore liberalizzazione del «pesticida umano» (Jérôme Lejeune).

Ebbene, le femministe di “Non una di meno” (Nudm) non hanno digerito le parole di Giorgia Latini. E così, dopo un comunicato con i soliti strali contro il patriarcato e la Chiesa (don Leonesi compreso), il 9 gennaio hanno organizzato mini azioni dimostrative davanti a diversi consultori e strutture sanitarie delle Marche. C’erano i cartelli già descritti, con gli hashtag “#molto più 194” e “#questa è guerra” (a imitazione delle femministe polacche). A Macerata, davanti alla sede dell’Asl, ne è comparso anche uno dalla scritta inquietante: «La storia ce lo insegna. Andiamo a bruciargli la casa». Subito è stato interpretato come una minaccia - per quanto fuori dai canoni grammaticali - contro la Latini (sposata e madre di due figli), che ha ricevuto solidarietà dal centrodestra e anche, pur nella diversità di vedute, da esponenti locali dei Cinque Stelle.

Nessuno ha rivendicato quel cartello (com’era prevedibile?), almeno non nel suo senso peggiore. Alcune femministe anconetane hanno anzi irriso la Latini per non aver capito che la scritta con il pronome al maschile non poteva riferirsi a lei e che si basava sul «noto meme ricavato da una lezione dello storico Alessandro Barbero sul tumulto dei Ciompi del 1378 che non è, ancora una volta, riferito a lei e alla sua casa», bensì indicherebbe i centri antiviolenza, le case delle donne e i consultori che «“bruciano” simbolicamente».

Prendiamo per buona la dissociazione dalla minaccia espressa, alla lettera, nel cartello, anche se ci permettiamo di notare che il rispetto del genere grammaticale non sta esattamente a cuore al transfemminismo di cui stiamo parlando. E se un caso di questo tipo fosse avvenuto a parti invertite, difficilmente una spiegazione così avrebbe potuto spegnere il fuoco mediatico, politico e, forse, giudiziario. Invece i grandi media del nostro Paese, gli stessi che fungono da grancassa dell’aborto e di gruppi come Nudm, hanno sorvolato sulla vicenda.

Soprattutto va rimarcato che i consultori non sono concepiti nelle nostre leggi per praticare aborti, e anzi dovrebbero cercare di evitarli. L’assessore Latini aveva parlato in Consiglio regionale del dovere delle istituzioni di aiutare le donne che decidono di abortire per mancanza di un sostegno psicologico o economico. A dispetto di ogni buonsenso, Nudm si scaglia proprio contro questo: «Via RU486, la nostra assessora alle Pari Opportunità ci ha informato quanto sia prezioso difendere la vita e come cercherà di sostenere le donne e le famiglie in difficoltà perché la vita va difesa. Poco importa se le madri devono fare i salti carpiati per conciliare il lavoro e la cura che è sulle loro spalle, se devono attendere per un posto agli asılı nido, se pur di badare alla famiglia devono fare un part time».

Un paio di appunti. Uno, la logica del lavoro femminile a tutti i costi - venduta come emancipazione - ha fatto perdere di vista l’originaria vocazione della donna alla maternità, causando disastri sociali, relazionali ed economici. Due, le femministe di Nudm, presentando alcuni dei problemi che incontrano le donne nel conciliare cura della famiglia e lavoro, non si accorgono di cadere in contraddizione: criticano infatti l’idea della Latini che va nel senso di aiutarle (speriamo che la giunta la attui) e che tra l’altro è in accordo con l’art. 5 della celebratissima Legge 194, laddove indica che i consultori - proprio loro - e le strutture sanitarie devono aiutare la donna «a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza», guarda caso la parte sempre dimenticata da chi parla di libertà di scelta ma considera l’eliminazione del bambino in grembo come l’unica “soluzione”.

Ancora. È tragicomico che l’aborto «per tuttu» significhi, come spiega il collettivo marchigiano di Nudm in un post rilanciato dalla pagina Facebook nazionale, che esso «non riguarda solo le donne ma tutte le persone gestanti» (donne che si sentono uomini), che è un altro rinnegamento dell’essere donna proveniente proprio da chi le vorrebbe rappresentare.

Il fatto poi che l’ospedalizzazione venga rigettata come superflua, preferendo la pillola-killer take away, ci dice da un lato del processo di banalizzazione in atto, che equipara l’uccisione di un bambino al prendere una pizza da portare via; dall’altro mostra le incoerenze di una cultura mortifera che negli anni ’60-‘70 iniziò a essere sdoganata un po’ in tutto l’Occidente con la scusa regina dei pericoli di mammane e aborti clandestini. E oggi, completato il processo di offuscamento di fede e ragione, palesa che il fine ultimo era mostrare che l’aborto non sarebbe solo “una libertà”, “un diritto”, ma addirittura “il bene”.