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FEDE E MUSICA

San Giovanni Battista e le note musicali

I nomi delle sette note musicali sono legati a san Giovanni Battista e in particolare all’inno Ut queant laxis, da cui Guido d’Arezzo trasse i nomi delle note dell’esacordo, cioè Ut (poi Do), Re, Mi, Fa, Sol, La. Più tardi la nota “Sì” verrà ricavata da “Sancte Ioannes”.

Cultura 24_06_2021

Forse non molti sanno che dobbiamo a san Giovanni Battista i nomi delle nostre note musicali. Si deve all’inno per i vespri della festa di san Giovanni Battista, Ut queant laxis, da cui Guido d’Arezzo trasse i nomi delle note dell’esacordo: “Ut queant laxis resonare fibris mira gestorum famuli tuorum, solve polluti labii reatum, sancte Ioannes”. Il significato di questa prima strofa dell’inno è: “Perché i fedeli sulla lenta lira possano cantare le tue grandi gesta, sciogli la colpa dell’impuro labbro, o san Giovanni”.

Come vediamo, le sillabe iniziali dei segmenti della prima strofa sono Ut (che più tardi verrà cambiato in Do), Re, Mi, Fa, Sol, La. Guido d’Arezzo ne parla nella sua Epistola ad Michaelem (1032): “Se dunque desideri imprimerti nella memoria un suono o un neuma [vocem vel neumam]... devi individuare quel suono o quel neuma all’inizio di una melodia che ti sia notissima... Come è ad esempio questo canto di cui mi servo per istruire i fanciulli, siano principianti o esperti…Vedi come questa melodia nelle sue sei sezioni abbia inizio con sei suoni differenti? Così se uno avrà imparato l’inizio di ciascuna sezione, dopo essersi esercitato tanto da saper subito intonare senza esitazione qualsiasi sezione desideri, potrà intonare facilmente quegli stessi sei suoni ovunque li veda, secondo le loro proprietà”. [Guido d’Arezzo, Le opere, a cura di Angelo Rusconi, Firenze 2005, p. 137].

Ogni sillaba corrisponde al grado della scala in senso ascendente. Più tardi la nota “Sì” verrà ricavata da “Sancte Ioannes”.

La composizione dell’inno è stata da alcuni attribuita a Guido d’Arezzo stesso, altri la attribuiscono a Paolo Diacono. Forse Guido compose una melodia ad hoc per esercitare praticamente la sua teoria: “Il monaco trascelse la prima strofa dell’inno latino saffico per san Giovanni Battista, attribuito senza prove sicure al celebre storico dei Longobardi e poeta Paolo Diacono, monaco di Montecassino († 799 ca.); al testo dell’inno Guido applicò una melodia ad hoc” [Giampaolo Mele (2016), Su “Ut queant laxis”. Il paradigma pedagogico e l’enigma dell’inno saffico per san Giovanni; in Musica Docta].

Per il Do, come detto, all’inizio esso era indicato con Ut, come vediamo nell’inno (una famosa messa di Giovanni Pierluigi da Palestrina è chiamata Missa Ut Re Mi Fa Sol La, perché basata su questo esacordo), ma poi fu cambiato appunto in Do. Alcuni hanno attribuito questo cambio al teorico Giovanni Battista Doni (1594-1647), ma altri pensano che esso sia avvenuto precedentemente la nascita di Doni. In ogni caso il cambio fu introdotto in quanto nel solfeggio l’uso di Ut poteva essere un po’ ostico.

Parlando di canto gregoriano, il musicologo Massimo Mila nella sua Breve Storia della Musica afferma: “Nella sua voluta povertà di mezzi artistici - il minimo di musica dopo la parola nuda - il gregoriano afferma una sua incrollabile unità, che non è l’unità di conquista della musica romantica: è un’unità eternamente posseduta, senza alcuno sforzo. Non il divenire, ma l’essere, sempre totale e sempre uno. È - scrive efficacemente il Bellaigue - l’unità dell’uomo con se stesso, unità spirituale e interiore; l’unità che l’uomo godeva prima della colpa originale”.

Non che questa visione sia priva di criticità, ma è vera questa contrapposizione tra il canto gregoriano e l’estetica romantica, un’estetica che è purtroppo penetrata nella musica usata nella liturgia in tempi recenti nella sua declinazione peggiore, quella del sentimentalismo più becero e proprio per questo più pestifero. Possiamo notare nell’inno a san Giovanni Battista, come in tutto il canto gregoriano, quell’austerità e intima forza spirituale che ne fanno un patrimonio della cultura mondiale.

Un’ulteriore curiosità del nostro inno riguarda la meno nota seconda strofa, che così diceva: “Nuntius celso veniens Olympo te patri magnum fore nasciturum, nomen et vitae seriem gerendae ordine promit” (Un angelo disceso dall’alto Olimpo rivela al padre la tua grande nascita, e il nome e, per ordine, le gesta della tua vita). La menzione paganeggiante dell’Olimpo fa cantare ad alcuni “Nuntius caelo veniens supremo”, per eliminare questa ‘pericolosa’ contaminazione.