San Francesco Saverio, il più grande missionario dell’età moderna
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Lo storico tedesco Hubert Jedin lo definì «il più grande di tutti i missionari dell’età moderna». E san Francesco Saverio fu in effetti un novello san Paolo, che portò il Vangelo in Oriente, dall’India al Giappone.
Missione, dal verbo latino mittere, cioè mandare, inviare. E a inviare qualcuno, per primo, fu proprio Cristo: mandò i suoi discepoli a recare il messaggio del Vangelo. Li mandò dovunque perché il mondo aveva bisogno di conoscere Gesù, il Salvatore del mondo. La missione, dunque, ha salde radici fin dalle origini del cristianesimo, e la Chiesa continua ancora oggi questo prezioso compito. Sono tanti i missionari nel mondo, appartenenti a ogni ordine o congregazione religiosa.
Ma facciamo un passo indietro nel tempo e arriviamo al XVI secolo. I nomi dei missionari di questo periodo della Chiesa non sono pochi, ma fra questi ne spicca uno in particolare: è san Francesco Saverio (Xavier, Spagna, 1506 – Isola di Sancian, Cina, 3 dicembre 1552), gesuita, dichiarato patrono delle missioni da papa Pio XI nel 1927, insieme a un altro monumento della fede, santa Teresa di Lisieux.
«Il più grande di tutti i missionari dell’età moderna», così il grande storico tedesco Hubert Jedin definì nella sua Storia della Chiesa del 1962, opera monumentale in dieci volumi, il santo spagnolo. E a ragione non può che essere definito in questo modo, perché san Francesco Saverio si sentiva soprattutto uno strumento nelle mani di Dio per poter evangelizzare. Questo il suo desiderio, questa la sua chiamata. Basterebbe leggere ciò che il santo scriveva nel settembre 1542 ai suoi compagni gesuiti residenti a Roma: «Confido che Cristo Nostro Signore mi faccia capire e concedere la grazia di servirsi di questo mio inutile strumento per stabilire la Sua fede fra i pagani». Da questi propositi si comprende come il suo cuore sia stato sempre incline e desideroso della missione: le sue parole ricordano molto quelle dell’Apostolo delle genti, san Paolo. Scrive di «pagani»: portare la Parola con le parole. Una forza evangelizzatrice sposata al fuoco sacro della missione.
L’evangelizzazione si serve di tanti strumenti perché Cristo sa come essere vicino a tutti gli uomini, di ogni estrazione sociale e di ogni cultura. San Francesco Saverio lo sapeva bene e allora, durante la sua missione in India, e più precisamente a Goa, capitale dell’Impero portoghese in Asia, quando vi giunse il 6 maggio 1542 comprese subito che andava costruito prima di tutto un ospedale: qui, il santo riuscì ad essere vicino a tutti i malati che gli si presentavano davanti. Addirittura dormiva loro accanto per poter essere subito pronto ad ogni loro necessità. Ma, accanto a questa missione, un’altra era presente nel suo cuore. E a questa dedicò grandi energie mentali e fisiche: l’assistenza spirituale ai carcerati e, soprattutto, ai mercanti e ai soldati portoghesi. La cosa più sorprendente è che questi uomini erano quanto mai lontani da una condotta esemplare. Eppure, proprio in questo panorama non certo edificante, la voce di Saverio tuonò forte e riuscì a convertire molte persone. Ma non solo la missione per gli adulti. Uno dei pensieri più ricorrenti nella mente di san Francesco Saverio era quello legato ai bambini. E proprio per loro si inventò persino delle canzoni per poter meglio trasmettere il Vangelo: un modo ludico per avvicinare a Cristo i bambini. In questa terra indiana rimase cinque mesi, ma i frutti del suo operato furono immensi. Questo riesce a fornirci un dato su cui è importante riflettere: cinque mesi soltanto e tanti, tantissimi frutti. Fu questa una dinamica del suo apostolato, della sua biografia: sembra quasi che la brevità dell’esistenza terrena a cui era destinato lo “costrinse” (in una certa misura) a fare in modo che il suo operato fosse concentrato, quasi come se sentisse dentro del poco tempo a disposizione sulla terra.
Goa, la partenza di tutto per poi essere inviato a Capo Comorin, sempre in India, ma al Sud. In questa regione fece il suo incontro con la tribù dei paravar. In questo contesto, così impervio sia socialmente sia logisticamente, un altro elemento va approfondito, un tema che delle missioni di Saverio rappresenta un punto cardine. L’evangelizzazione avviene grazie al linguaggio ovviamente: e allora, poiché la tribù indiana parlava il tamil, Francesco si fece tradurre nella lingua del luogo il Credo, il Padre Nostro, l’Ave Maria e i 10 Comandamenti: i muri che potevano sorgere furono abbattuti grazie a questo espediente. Questa missione durò due anni.
Altra missione, altra terra, altra popolazione: Molucche, arcipelago in quella che sarebbe l’odierna Indonesia. Un viaggio iniziato l’1 gennaio del 1545: un viaggio sicuramente periglioso che lambì diverse terre prima di giungere a Molucche. Giunse ad Amboina, un’isola dell’arcipelago delle Molucche, nel Mar di Banda. Qui restò tre mesi per poi partire alla volta di un’altra isola, Ternate. Indonesia, dunque: altra terra da evangelizzare.
Ma la sua mente spaziava e andava oltre: il Giappone e la Cina. Scriveva nel 1548 sempre ai suoi confratelli di Roma: «Alcuni mercanti portoghesi, uomini di molto credito, mi diedero grandi notizie di alcune isole assai grandi, scoperte da poco tempo a questa parte, le quali si chiamano Isole del Giappone». E in Giappone il santo missionario giunse il 15 agosto 1549. Qui trovò altra terra, un popolo diverso da quello delle Indie e dall’Indonesia. Un giorno scrisse a Ignazio di Loyola per chiedere altri missionari. Questo, il profilo che fece al futuro santo, Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù, del “perfetto missionario” in Giappone: «Sarebbe bene che fossero buoni filosofi e non andrebbe male se fossero dialettici, per cogliere in contraddizione i giapponesi durante le dispute. Inoltre dovrebbero sapere qualche cosa della sfera celeste poiché i giapponesi sono molti lieti di conoscere i movimenti del cielo, le eclissi del sole, il diminuire e il crescere della luna; come hanno origine l’acqua della pioggia, la neve e la grandine, i tuoni, i lampi, le comete e altri fenomeni naturali». Descrizione contenuta in una lettera datata 9 aprile 1552. Una missione, questa, difficile, tanto da comprendere quasi subito che il Giappone non era terra di missione particolarmente propizia, sebbene anche lì suscitò conversioni. Lasciò, dopo circa due anni, questa terra. Cercò, allora, di portare il Vangelo in Cina: era il suo sogno. Non riuscì nel suo intento. La morte sopraggiunse nel 1552. Nello stesso anno, a Macerata, nasceva un altro futuro gesuita, Matteo Ricci: era il 6 ottobre 1552, qualche mese prima di quel 3 dicembre, giorno in cui Francesco Saverio saliva al Cielo.

