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INTERVISTA A GIUSEPPE SABELLA

Rivoluzione anti-industriale. Cosa c'è dietro lo scontro fra Mittal e il governo

Arcelor-Mittal la multinazionale franco-indiana che stava acquistando l’Ilva, ha annunciato ieri mattina il suo disimpegno. Addio Mittal? Non è detto. La Nuova Bussola Quotidiana ne ha parlato con Giuseppe Sabella, direttore del think tank Think-industry 4.0. Che ci spiega, prima di tutto che: "Qui c’è dell’altro: la volontà di restare in Italia rivedendo l’accordo complessivo fatto con il sistema-Italia". Dunque: riduzione dei posti di lavoro e soprattutto il rispetto dei patti sullo scudo penale. Perché la nuova proprietà che subentra non può rischiare il carcere per errori ereditati dal passato. Gravi le responsabilità del governo. Anche per un'ideologia anti-industriale completamente avulsa dalla realtà.

Economia 07_11_2019
Gli impianti di Taranto

Arcelor-Mittal la multinazionale franco-indiana che stava acquistando l’Ilva, ha annunciato ieri mattina il suo disimpegno e l’avvio della retrocessione degli impianti e dei dipendenti. La tensione con il governo e con i sindacati è salita bruscamente a causa del cambiamento delle condizioni, da parte del governo Conte. E’ saltato, infatti, quello scudo penale che avrebbe garantito ai nuovi proprietari delle acciaierie pugliesi di non rispondere dei danni provocati dai predecessori. All’annuncio di ieri mattina ha fatto seguito un incontro delle parti a Roma, fra governo e vertici aziendali. Da parte del governo erano presenti oltre al premier Conte, il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli, dell’Economia Roberto Gualtieri, del Sud Giuseppe Provenzano, della Salute Roberto Speranza e delle Politiche agricole Teresa Bellanova. Perché tanti sono i settori coinvolti dalla questione Ilva, di lavoro, economici e ambientali. Mentre da parte dell’azienda c’erano il presidente e Ceo Lakshmi Mittal e il chief financial officer Aditya Mittal, non ha partecipato Lucia Morselli, amministratrice delegata di Arcelor-Mittal Italia. In ballo ci sono circa 10.700 dipendenti, che diverrebbero disoccupati se l’ex Ilva dovesse chiudere. Alla fine dell’incontro, i vertici aziendali hanno chiesto 5mila esuberi, condizione che il governo ritiene “inaccettabile”. Addio Mittal? Non è detto. La Nuova Bussola Quotidiana ne ha parlato con Giuseppe Sabella, direttore del think tank Think-industry 4.0 e research fellow della Donald Lynch Foundation (North Carolina, Usa).

Dottor Sabella, perché siamo arrivati fino a questo punto?

I fatti sono che Arcelor Mittal si ritira da un accordo che aveva sottoscritto. Nel momento in cui una delle due parti si ritira, come in qualsiasi accordo, ci sono penali da pagare. Evidentemente l’azienda si ritira perché ritiene di avere ragione, perché nel contratto era scritto che vi fosse diritto di recesso in caso di cambiamento delle condizioni. E le condizioni sono cambiate. Il governo Conte accusa l’azienda di non rispettare i patti, ma i ben informati, sin da questa estate quando Il Sole 24 Ore ebbe il testo del contratto in esclusiva, sanno dell’esistenza di questa clausola: se cambiano le condizioni, Mittal può recedere. E ne avrebbe ben donde, visto che stiamo parlando di un investimento di 4 miliardi di euro per rilanciare un’industria pesante e risanare i danni fatti da qualcun altro. Soprattutto nella sua ultima formulazione, il contratto prevedeva che l’azienda potesse godere della tutela legale nel rispetto del cronoprogramma degli accordi che ha col governo. Se il governo ritiene che l’azienda non ha rispettato il cronoprogramma, lo dica. Ma se non lo dice, perché punire l’azienda? Perché a questo punto si crea un problema di sicurezza e l’azienda è costretta a fermare l’impianto. C’è anche un aspetto più prettamente economico della vicenda.

Quale?

La produzione dell’acciaio, in Italia e il mercato di Arcelor-Mittal in Europa, sono stati stressati sia dalla crisi dell’auto che dalla produzione turca e cinese, che ha costi nettamente inferiori. Ovviamente non parliamo della stessa qualità di acciaio, ma l’Italia inizia ad essere meno conveniente, rispetto ai concorrenti. A questo punto Mittal si è ritrovata, secondo i ben informati, a perdere 2 milioni di euro al giorno. Quando l’azienda ha vinto il bando di gara e si è accordata con i sindacati, era partita dalla proposta di 8mila assunzioni e ha finito per accollarsene 10.700. Evidentemente ci sono livelli occupazionali che l’azienda non può più permettersi. Ed è questa, probabilmente, la ragione principale della prova di forza col governo.

Viste queste premesse, perché Mittal non dovrebbe andarsene, allora?

Arcelor-Mittal Italia, un mese fa, ha sostituito il suo amministratore delegato Matthieu Jehl, con Lucia Morselli, conosciuta nell’ambiente sindacale come “lady di ferro”, nota per la gestione di vertenze complesse che hanno portato a forti ristrutturazioni aziendali. La più famosa è quella dell’acciaieria di Terni che si è conclusa dopo 35 giorni di sciopero. Una nomina così importante era indice che qualcosa di grosso stesse per succedere. Non si fa un cambio di amministratore delegato per gestire un disimpegno. Qui c’è dell’altro: la volontà di restare in Italia rivedendo l’accordo complessivo fatto con il sistema-Italia. Soprattutto una riduzione del livello occupazionale.

Quindi si tratterà sul numero di posti di lavoro?

In sostanza sì. E sulla reintroduzione dello scudo penale. Perché un investimento così grande non può proseguire, se dall’oggi al domani si rischia di finire in carcere. Un domani potremmo trovarci di fronte a fatti gravi che non dipendono dalla gestione di Arcelor-Mittal. La quale, sulla base del suo cronoprogramma, sta riconvertendo gli impianti. Trovo del tutto irragionevole che lo scudo penale sia stato cancellato.

Il governo ha le sue gravi responsabilità, dunque?

E’ inspiegabile quanto il Pd stia appoggiando il Movimento 5 Stelle. Perché quest’ultimo ha al suo interno, da sempre, una componente che è anti-industriale per ragioni ideologiche. Al suo interno c’è soprattutto una base del partito che è contro Mittal per principio. Di conseguenza, la cancellazione dello scudo penale è causata da una pressione che i vertici del partito hanno subito dalla loro base. Però non ha senso, perché i patti devono essere rispettati. Se ti sei messo d’accordo con una controparte a determinate condizioni, le devi rispettare. Assurdo anche considerando il fatto che lo scudo non è una novità, è stato introdotto dal governo Renzi nel 2015 per tutelare i commissari, nella fase transitoria. Quindi perché proteggere il pubblico e non il privato? Ovviamente non è giusto proteggere un soggetto in eterno, ma in questa fase transitoria è giusto.

Perché lo scudo penale è stato ritirato dopo la firma del contratto?

Nel precedente governo Conte, Di Maio, ministro dello Sviluppo se n’è guardato bene dal toglierlo quando Arcelor è subentrata, perché sapeva bene che non fosse possibile. Poi ha iniziato a subire pressioni forti, perché l’elettorato pentastellato che vive sul territorio di Taranto, ferito dalla precedente gestione dell’Ilva, vuole che la fabbrica venga chiusa. A causa di questa spinta, il governo Conte I ha eliminato lo scudo a cavallo dell’estate a far data dal 6 di settembre. Vi sono elementi che ci inducono a pensare che era nelle intenzioni del governo di ripristinare la stessa misura, probabilmente con un nome diverso, cosa che non avrebbe costituito alcuna differenza agli occhi dell’azienda e che probabilmente avrebbe salvato l’immagine del Movimento agli occhi degli elettori. Se non fosse che è scoppiata la crisi di governo in agosto e il nuovo governo, alla fine dei conti, ha visto il suo decreto salva imprese modificato dal Parlamento proprio sul punto della tutela penale che è stata stralciata. E ciò si può spiegare solo con la pressione della base pentastellata. Teniamo anche presente delle lotte intestine nei singoli partiti.

Più ideologia o incompetenza?

Per quanto riguarda la base, c’è molta ideologia. Perché essere contro l’industria, per come è ridotta l’Italia oggi, è un atteggiamento puramente ideologico, avulso dalla realtà. E’ anche diverso dall’anti-industrialismo del secolo scorso, che mirava a “spremere” le industrie, il nuovo anti-industrialismo mira proprio a chiuderle. A livello di competenza, è venuto a mancare un interlocutore preparato. Perché non è facile trattare con una grande azienda, occorrono professionisti seri. Invece, da un anno e mezzo, questo grande investitore si relaziona con persone che non sono all’altezza. Ci sono 160 tavoli aperti in cui non si trova soluzione, oltre ad Ilva anche Whirlpool, Pernigotti, Embraco, solo per citare i più famosi. Tutto perché in un anno e mezzo il Ministero dello Sviluppo Economico si è fermato. Non dà più risposte. Del Ministero faceva parte la divisione guidata dal dottor Castano, nata negli anni della crisi economica, molto capace di gestire crisi aziendali. La prima cosa che ha fatto Di Maio è stato di smantellarla, perché voleva un taglio col passato.