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deliri della pop theology

Risparmiateci almeno la "canonizzazione" della Vanoni

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Per il prete che ha celebrato il funerale «cantare la Vanoni è fare memoria dell'Eucarestia»; e il solito vescovo Staglianò non teme il ridicolo nel delineare la sua poetica tra trasfigurazioni, resurrezioni e fede. Bastava affidarla al buon Dio come tutti, senza fare sfoggio di narcisistiche e improbabili letture evangeliche. 

Editoriali 26_11_2025

Ma era davvero necessario dipingere anche Ornella Vanoni come un santino a uso e consumo di un cattolicesimo annacquato e sentimentale? Non sarebbe stato meglio affidarla al Buon Dio con i suoi meriti e i suoi peccati (come tutti, del resto) senza complicarsi la vita in astruse ricostruzioni para religiose per tentare una forzata lettura delle sue canzoni in chiave cattolica? Eppure, ci sono preti – e vescovi - che l’hanno fatto in queste ore, senza alcuno sprezzo del ridicolo.

Non era già sufficientemente bello il ricordo delle sue canzoni, l’Appuntamento, Senza fine, Domani è un altro giorno, La musica è finita, che raccontano di sentimenti umani, di passioni e che sono dolci e sono struggenti quanto basta senza per forza insegnarci, che anche in lei c’era qualcosa di evangelico da prendere a modello?

Del resto, per una che si è dichiarata atea tutta la vita e che non ha certo scritto nelle sue canzoni (che altri scrivevano per lei) trattati di teologia né riferimenti più o meno vaghi allo spirituale, non era mica indelicato. Anzi. Si scopre che verso la fine dei suoi giorni, stando almeno a quanto ha raccontato in camera ardente un prete ortodosso, si sarebbe innamorata di Gesù e disse – parafrasando il verso di una delle sue più celebri canzoni – “proviamo anche con Dio”. E vabbè, anche fosse, ma che senso ha questa zuccherosa esegesi fatta dagli uomini di Chiesa che pretende di presentarcela come exemplum virtutis per le nuove generazioni? Sicuri, sicuri che lo fosse o che ambisse ad esserlo?

Perché un conto sono le vie misteriose e personali attraverso le quali anche la Vanoni si interrogava su Dio, sulle quali nessuno può entrare e che si affidano soltanto al buon Giudice, un conto è voler per forza trovare una sorta di catechismo minore dalla sua vita di artista e soprattutto provando con goffaggine a rileggere in chiave evangelica le parole delle sue canzoni.

E invece, proprio quel “proviamo anche con Dio, è servito a don Luigi Garbini per costruire un quadro teologico delle sue canzoni durante l’omelia pronunciata nella messa funebre di lunedì nella chiesa di San Marco a Milano.

Un qualcosa che assomiglia, più che a un’omelia, a un narcisistico saggio di analisi delle canzoni lette in chiave evangelica, che storpia le parole di Gesù così. «Vorrei anch’io pregare così, con queste parole del Vangelo e dire: “Ti benedico e ti ringrazio o Padre del cielo e della terra perché ci hai dato Ornella”».

E così che il “prete musicista” come è stato ribattezzato dai media, (chissà perché i preti devono essere sempre accompagnati da attributi, il prete youtuber, il prete di strada, il prete artista… insomma… la qualifica di prete da sola non regge?) ha costruito non una predica ma un elogio funebre volando alto e citando Goethe, Virginia Woolf e persino il critico Gino Castaldo. E via con i «potremmo forse anche noi vederci tutti abbracciati, alla ricerca del suo abbraccio. È così che sentiamo lei e sentiamo anche noi» per dire che «da una parte sta la fragilità e dall’altra lo stare in equilibrio sopra un’emozione» per dire che è un’espressione profondamente cristiana che ci avvicina alla Croce. E avanti con «è per questo che oggi facciamo memoria, cioè Eucaristia: “Fate questo in memoria di me”: che significa: solo cantando Ornella, facendo questo come memoria potremo “provare anche con Dio” In fondo…non si sa mai…». Addirittura? Cantare Ornella Vanoni come memoria dell’Eucarestia?

Non si capisce se per certi preti sia più la brama di comparire o il bisogno di essere ascoltati o addirittura la profonda inadeguatezza a limitarsi a fare il loro mestiere. Di sicuro gigioneggiano con sicumera senza andare dritto al sodo di ciò di cui un’anima ha bisogno in questi momenti.

Ma in quanto a narcisismo, la palma spetta senza dubbio al vescovo Antonio Staglianò, nientemeno che presidente della Pontificia accademia cattolica di teologia, uno che si vanta di aver inventato la pop theology con la quale leggere in chiave cristiana le canzoni del momento. Impresa ardua, che a volte sconfina nel ridicolo. Come in questo caso.

Staglianò ha scritto un articolo su Famiglia cristiana nel quale dà prova di tutto il suo delirio narcisista e confuso.

Addirittura, la morte di Ornella è «una trasfigurazione: l'ingresso definitivo di un Archetipo nell'eternità della cultura» mentre piangere per la sua morte sarebbe «un fraintendimento del suo messaggio». Senza sprezzo del ridicolo, Staglianò ci invita invece a «contenere il sorriso grato per il patrimonio di umanità che ci ha donato» perché «il suo carisma non era fatto di perfezione inarrivabile, ma di una schiettezza rituale»

E ancora: «Un’Anima che canta, non una santa canonizzata, ma una che ha trovato nella pratica del canto la sua via di salvezza» e nell’«amore il nucleo del suo credo, una fede laica eppure profondamente spirituale».

E la fede? Eccola: «La “fede” di Ornella Vanoni, così come emerge dalla sua opera, era una fede nella resistenza resiliente dell'umano contro l'oblio. Credeva che l'unico modo per sfidare la morte non fosse attraverso la preghiera a un dio lontano, ma attraverso l'atto coraggioso di donare pezzi della propria anima all'ascoltatore».

Il senso della sua morte, poi, è tutto un programma: «La sua morte fisica non è la fine di questa esistenza, ma il momento in cui il suo "Io Sono" (sic!) – cioè la somma totale di tutto l'amore che ha cantato e incarnato – si stacca definitivamente dalla sua persona per diventare pura eredità, pura energia a disposizione di chiunque abbia un cuore per ascoltare». E infine, gran finale, non poteva mancare la Risurrezione: «La sua resurrezione avviene ogni volta che una sua canzone accende un'emozione, consola un dolore o semplicemente fa sentire qualcuno meno solo. È una fede nella vita dopo la morte dell'io, ma non della relazione».

Parole che suonerebbero grottesche in bocca ad un critico, ma che poronunciate da un vescovo sono, se vogliamo, anche irriverenti e che ci danno la misura di quanto in basso sia caduto il dialogo della Chiesa con gli artisti: un tedioso e autoreferenziale tentativo di appiccicare qualcosa di religioso laddove il religioso proprio non era stato nemmeno contemplato. Forse Ornella avrebbe riso di questo tentativo di essere dipinta come una santa della canzone alle prese con risurrezioni, trasfigurazioni e “eucarestie” laiche. Il guaio è che invece certi preti e vescovi si prendono fin troppo sul serio. In fondo, sono solo canzonette.