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SUDAFRICA

Primi boeri accolti come rifugiati negli Usa. Ma il genocidio non c'è

Fa discutere l'ordine di Trump di accogliere negli Usa i bianchi del Sudafrica. Sono arrivati i primi boeri (afrikaner) accolti dal sottosegretario agli Esteri Landau, che li paragona agli ebrei in fuga dalla Germania negli anni '30. Ma il genocidio manca.

Esteri 22_05_2025
Agricoltori boeri in Sudafrica (La Presse)

Uno dei primi impegni assunti dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump, subito dopo il suo insediamento il 20 gennaio scorso, è stato quello di occuparsi dei problemi della minoranza bianca del Sudafrica. Lo ha mantenuto e il 7 febbraio ha firmato un ordine esecutivo che autorizza il suo governo a concedere lo status di rifugiato ai sudafricani di origine europea “vittime di ingiusta discriminazione razziale”. L’ambasciata americana in Sudafrica ha subito avuto ordine di ricevere ed esaminare le richieste di asilo. A metà aprile più di 30 erano già state approvate e altre sono state vagliate nelle settimane successive. Il 12 maggio i primi 59 sudafricani si sono imbarcati sull’aereo che li ha portati negli Stati Uniti. Ad accoglierli all’aeroporto Dulles di Washington è stato il vice segretario di stato Christopher Landau che ha paragonato il loro viaggio a quello di suo padre, un ebreo austriaco fuggito negli anni 30 del secolo scorso prima in Sudamerica e poi negli Stati Uniti.

In Sudafrica i bianchi costituiscono il 7% della popolazione, poco più di 4,5 milioni su un totale di 63. Quelli che finora hanno ottenuto asilo negli Stati Uniti appartengono alla comunità Afrikaner. Sono i discendenti dei primi coloni in gran parte olandesi arrivati nella regione nel XVII secolo. Si chiamano anche Boeri e attualmente sono circa 2,5 milioni. Che cosa può indurre un cittadino sudafricano bianco a temere di vivere nel suo paese e perché un governo straniero può ritenere giustificata una sua richiesta di asilo, sono le domande che molti si sono posti. Il regime di apartheid (termine afrikaner che indica il sistema di sviluppo separato e segregazione razziale istituito dai bianchi) è finito nel 1994. Ciononostante la maggior parte dei bianchi non hanno troppo patito il cambiamento radicale, se non per il fatto di risentire, come il resto della popolazione, dei danni economici e sociali causati al paese dalla leadership politica nera e in particolare dall’Anc, il potente partito di Nelson Mandela al governo dal 1994 e da allora talmente inquinato da logiche clientelari e interessi personali da aver dato vita a un “modello” di corruzione politica sistemica, assoluta, per il quale è stato coniato il termine “state capture”, cattura dello stato, letteralmente.

La disaffezione degli elettori (alle politiche del 2024 l’Anc ha ottenuto solo il 40% dei voti, 17 punti percentuali meno che nel 2019), la delusione, lo scontento e la frustrazione della popolazione nera, che ancora attende il benessere e la giustizia promessi dai suoi leader, in qualche modo devono essere contenuti. L’espediente più semplice è accusare la minoranza bianca, descriverla come ancora indebitamente detentrice di privilegi e potere. I ceti medi bianchi sono in effetti in media più ricchi di quelli neri. Il tasso di disoccupazione, il peggiore del pianeta e in costante aumento, tra i neri è molto più elevato che tra i bianchi. Tre quarti delle terre private, gran parte delle grandi e medie fattorie, sono proprietà di bianchi.

A gennaio però è entrata in vigore una legge che intende rimediare alle disparità economiche destinando a neri, indiani e coloured (meticci) posti di lavoro soprattutto a livello manageriale e professionale qualificato dove la disparità tra bianchi e neri è maggiore. Ad aprile inoltre il governo ha pubblicato gli obiettivi quinquennali relativi a 18 settori economici, tra cui quello minerario, quello manifatturiero e quello agricolo, nei quali ai non bianchi dovranno essere assegnati impieghi dirigenziali. In quello minerario, ad esempio, il 57,5% dei posti dirigenziali di alto livello dovranno essere ricoperti da non bianchi. Va da sé però che, se l’occupazione non cresce, dei bianchi sono destinati a perdere il lavoro per far spazio agli altri ed è quello che sta già succedendo. È il caso di uno degli afrikaner arrivati negli Usa il 13 maggio.

Ancora più preoccupante per i bianchi è la controversa legge entrata in vigore a gennaio, dopo anni di discussioni, che consente al governo sudafricano di sequestrare dei terreni senza indennizzi e che pertanto può aprire la strada alla confisca di terreni agricoli. L’Anc l’ha definita una “pietra miliare” decisiva per il cambiamento del paese. La legge, assicura, autorizza l’esproprio senza indennizzo solo in circostanze in cui farlo sia “giusto, equo e nell’interesse pubblico”. Ma è chiaro che chi l’ha voluta ritiene che non ci sia niente di più giusto, equo e di pubblico interesse che espropriare le terre dei bianchi e ridistribuirle. Le forze politiche di sinistra reclamano una riforma agraria che “faccia giustizia”. A volerla e inoltre a reclamare la nazionalizzazione di tutte le attività produttive è soprattutto lo FFE, Economic Freedom Fighters, il terzo partito per importanza. Lo slogan del suo leader, Julius Malema, la canzone che canta sempre ai comizi, è “Spara al Boero, spara al contadino”. La Corte suprema ha respinto le richieste di vietare la canzone sostenendo che Malema ha diritto di cantarla perché “le sue parole non vanno intese alla lettera”, sono solo un modo provocatorio di promuovere il programma politico del suo partito che mira a porre fine a delle ingiustizie.

Finora i dati smentiscono chi parla di un “genocidio dei bianchi” in atto (un argomento usato dallo stesso Trump). Il Sudafrica è il paese più violento del pianeta. Ma, ad esempio, su 27mila persone uccise nel 2024, i bianchi sono poche decine, forse 44.  Tuttavia un clima politico e sociale teso può degenerare in violenza, rivolta, e molto in fretta. Sembra che siano circa 70mila i bianchi, non solo Afrikaner, che vorrebbero approfittare dell’offerta di Trump. Oltre a temere per la loro vita, li preoccupa soprattutto la prospettiva di perdere tutto come è successo a migliaia di bianchi nel vicino Zimbabwe. Come in Sudafrica, anche lì i bianchi erano proprietari di grandi estensioni di terra, fattorie coltivate e redditizie. Espropriate 25 anni fa con il pretesto di una riforma agraria, in parte adesso sono incolte, in parte, frammentate, sono state affidate a famiglie di neri che, invece di produrre per il mercato, le coltivano con scarsi risultati destinandole a colture di sussistenza. È stato l’inizio di una crisi economica senza precedenti che dura tuttora, che ha ridotto in miseria uno dei paesi africani più ricchi e stabili e ha ingiustamente mandato in rovina migliaia di famiglie di bianchi.

Il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa ha definito “codardi” i connazionali che sono già partiti. Tra gli stessi Afrikaner c’è chi ritiene che pochi altri bianchi seguiranno il loro esempio perché non ce n’è realmente motivo. L’iniziativa di Trump peraltro è stata criticata sia a livello internazionale sia in patria, tanto più che cade proprio mentre il governo americano ha sospeso a tempo indeterminato l’ingresso di profughi da altri paesi. L’Oim, Organizzazione internazionale per le migrazioni, ha respinto la richiesta di Washington di contribuire al reinsediamento degli Afrikaner. Anche la Chiesa episcopale Usa ha deciso di non collaborare più con il governo per questioni riguardanti i rifugiati dopo che le è stato chiesto di aiutare quelli Afrikaner. «È stato doloroso vedere dei rifugiati, selezionati in modo del tutto insolito, ricevere un trattamento preferenziale rispetto a molti altri che hanno atteso nei campi profughi o in condizioni pericolose per anni» ha scritto ai fedeli in una lettera il capo della Chiesa, monsignor Sean Rowe. La senatrice Jeanne Shaheen, democratica, membro della Commissione Affari Esteri del Senato, si dice “sconcertata”: «è chiaro che la decisione di questa amministrazione di dare la priorità a loro – ha commentato – ha una motivazione politica e rappresenta un tentativo di riscrivere la storia».

«Torneranno presto indietro – dice Ramaphosa – scommetto che ritorneranno perché non c’è al mondo un paese come il Sudafrica». Intanto il 21 maggio è volato lui negli Stati Uniti per provare a convincere Trump a ristabilire rapporti bilaterali, economici e commerciali, con il suo paese e a riprendere gli aiuti umanitari da lui interrotti a febbraio per protesta contro la legge sul sequestro delle terre e per la decisione del Sudafrica di denunciare Israele di genocidio presso la Corte Internazionale di Giustizia.

La posta in gioco è molto alta per il Sudafrica. Gli Stati Uniti sono il suo secondo partner commerciale dopo la Cina e ogni anno forniscono al paese aiuti per oltre un miliardo di dollari. «Che ci piaccia o no – ha dichiarato Ramaphosa parlando alla televisione di stato sudafricana prima di partire – ci uniscono agli Stati Uniti legami indissolubili e quindi dobbiamo parlare con loro».