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IL NUOVO VENERABILE

Padre Alberto Beretta, le virtù eroiche di un missionario

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Fratello di santa Gianna, cappuccino e medico, missionario in Brasile. Vi fondò un ospedale, curando tanti nel corpo e nell’anima. Un sacerdote innamorato di Gesù e Maria, dalla grande pietà verso il prossimo, come emerge dal suo epistolario.

Ecclesia 21_12_2023

Forse non saranno mai canonizzati, ma Alberto Beretta (1881-1942) e la moglie Maria De Micheli (1887-1942) sono stati certamente due santi genitori, che ci ricordano quanto sia importante riscoprire la famiglia secondo il progetto di Dio. Due genitori all’antica, si direbbe oggi, terziari francescani, che iniziavano le loro giornate andando a Messa insieme – la prima del giorno (o vi andavano una dopo l’altro, quando l’incastro degli impegni lo imponeva) – e le concludevano recitando alla sera, dopo la cena, il Santo Rosario. In questi due momenti quotidiani, in mezzo alle tante occupazioni per lui e per lei, erano coinvolti anche i figli: 8 (su 13) quelli giunti all’età adulta.

Non è un caso, dunque, che nella famiglia Beretta siano sorte una molteplicità di vocazioni che hanno reso gloria a Dio in differenti stati di vita: da quella al matrimonio alla vocazione religiosa e sacerdotale (due i figli sacerdoti e una suora). E non è un caso che questa famiglia conti già una santa con tutti i crismi, Gianna Beretta Molla (1922-1962), la pediatra, sposa e madre eroica, canonizzata da Giovanni Paolo II nel 2004. E ha un altro membro già ben avviato sulla stessa strada di santa Gianna, il fratello Enrico, in religione padre Alberto Maria Beretta (1916-2001), nomi che assunse in onore dei genitori all’ingresso, inizialmente come semplice oblato, tra i cappuccini.

Lo scorso 14 dicembre il Dicastero delle Cause dei Santi ha promulgato il decreto che riconosce le virtù eroiche di padre Alberto, che quindi ora ha il titolo di venerabile, il gradino precedente a quello di beato, per il quale servirà il riconoscimento di un miracolo per sua intercessione.

Era nato a Milano il 28 agosto 1916. Da giovane entrò nell’Azione Cattolica, cercando di educare e attrarre altri ragazzi al servizio di Cristo. Grazie all’incontro con alcuni cappuccini, in primis con padre Adriano da Zanica, missionario in Brasile, maturò la decisione di farsi sacerdote e partire anche lui un giorno verso il Sudamerica, per servire come medico nella missione dei cappuccini lombardi nello stato brasiliano del Maranhão. Alla soglia dei 26 anni si laureò in Medicina, a Milano. Gli sviluppi della Seconda guerra mondiale rischiarono di mandare all’aria i sogni del giovane Enrico: nel 1943 fu chiamato alle armi, ma, per sottrarsi all’arruolamento forzato nella Repubblica di Salò, si rifugiò prima in Piemonte e poi in Svizzera, dove iniziò gli studi di teologia.

Alla fine del conflitto, poté rientrare in Italia. Si recò a San Giovanni Rotondo, dove servì Messa a padre Pio da Pietrelcina, che lo confermò nella sua vocazione di farsi missionario tra i cappuccini. Nel 1948 venne ordinato sacerdote dal beato cardinale Alfredo Ildefonso Schuster. L’anno successivo, a 33 anni non ancora compiuti, giunse finalmente in Brasile, nella missione di Grajaú. A pochi giorni dal suo arrivo, venne inaugurato il suo ambulatorio, allestito provvisoriamente nel caseggiato del convento.

Così lo stesso padre Alberto, in una lettera ai familiari datata 8 agosto 1949, ricordava quel momento cruciale: «Il Vescovo benedisse i locali [dell’ambulatorio, ndr] e alcune parole dissi anch’io alla folla, in portoghese, dissi solo questo, che cioè tutti i malati e sani ricordino sempre che il vero medico non sono io, ma Nostro Signore che abita in questa stessa casa, perciò approfittino dell’occasione, quando vengono per ricevere la medicina, o per farsi curare, non dimentichino di fare una visita a Nostro Signore e ricevere i suoi rimedi che servono, oltre che per il corpo, per l’anima, quindi molto più preziosi dei miei».

Poiché la sua laurea non era riconosciuta in Brasile, dovette riprendere gli studi in medicina e ridare diversi esami, approfondendo in particolare le conoscenze sulle malattie tropicali. Non appena il suo titolo di studio fu convalidato, si poté dedicare anima e corpo all’impresa di costruire un ospedale, poi intitolato a san Francesco. L’epistolario di questo periodo della sua vita, siamo negli anni Cinquanta, testimonia la grande fiducia che padre Alberto aveva nella Divina Provvidenza, presenza costante nei suoi scritti. «Vedo proprio che la Provvidenza ci aiuta, perché finora, per l’ospedale, posso dire che le cose vanno bene, sebbene sia solo fra due o tre mesi che potremo ricevere gli aiuti e continuare l’opera», scriveva ad esempio il 7 marzo 1956 al cognato Pietro Molla (1912-2010), lo sposo di santa Gianna. L’ospedale fu infine ultimato – anche grazie all’aiuto dei suoi due fratelli ingegneri, don Giuseppe e Francesco – e con esso sorse anche una struttura per accogliere e curare i lebbrosi (Villa San Marino).

La cura dei malati si accompagnava all’esercizio devoto del suo ministero sacerdotale. Padre Alberto si muoveva con i mezzi più vari, prendendo l’aereo o andando in sella a un semplice mulo, per raggiungere i tanti villaggi della prelatura di Grajaú, così da celebrarvi Messa almeno una volta l’anno, confessare, insegnare il catechismo, preparare ai Sacramenti, visitare gli infermi. Nel mezzo a questo apostolato in terra brasiliana, non mancava di incoraggiare e guidare spiritualmente i cari e gli amici che aveva in Italia. A pochi mesi dalla morte di Gianna, così scriveva a Pietro: «Pensando a te, mi sono convinto ancora una volta di più che non solo sei caro a Nostro Signore, ma carissimo, perché Egli ha affidato a te, privandoti della Gianna, la missione più alta e più utile e preziosa per salvare le anime, la missione del dolore, l’apostolato del soffrimento. Gesù ha voluto trasformarti in un apostolo; col tuo soffrimento così grande, accettato con tali disposizioni di animo, puoi fare più bene alle anime che noi con tutte le nostre prediche» (lettera del 5 dicembre 1962). Un cognato, Pietro, di cui padre Alberto riconosceva la santità di vita, come gli scriveva ancora il 20 gennaio 1967, raccomandandogli di stare «sempre bene, allegro e sempre più santo».

Allo stesso modo dava consigli ai nipoti rimasti orfani; consigli semplici, ricchi di consolazione e speranza. In una lettera a Pierluigi, il primogenito di Gianna e Pietro, in occasione della sua Prima Comunione, scriveva: «La Mamma di tutti, che è in Cielo, Maria Santissima, ti accompagni sempre al Suo Gesù, e ti protegga sempre in tutto. Tu, però, ricorri sempre a Lei, con la stessa semplicità con cui parlavi con la tua mamma qui in terra».

Dopo quasi 33 anni in terra brasiliana, con una salute straordinariamente preservata nonostante l’instancabile dedizione a tanti malati nel corpo e nell’anima, arrivò il Natale del 1981: quel 25 dicembre padre Alberto fu colpito da un ictus cerebrale, che gli causò una paralisi alla lingua, a un braccio e a una gamba. Fu l’inizio del suo personale calvario, che lo costrinse, a inizio 1982, a tornare in Italia, dove visse altri 19 anni e mezzo tra terapie di recupero e l’assistenza amorevole dei suoi fratelli. Il 10 agosto 2001 il suo ritorno alla casa del Padre, dopo aver recitato il Rosario. Una vita, fino all’ultimo, nel segno di Gesù e Maria.

Al processo diocesano di beatificazione (2008-2013) sono stati ascoltati 56 testimoni, 30 in Brasile e 26 in Italia. Tra loro anche la nipote, Gianna Emanuela Molla: «Ricordo di aver portato con me in Curia a Bergamo una vecchia fotografia sbiadita di quando avevo solo 4 anni, dove lo zio è accanto a me e con la sua mano stringe forte il mio braccio destro in senso molto protettivo, e alcune tra le bellissime lettere che mi aveva scritto dal Brasile durante la mia infanzia e giovinezza, lettere piene di affetto, di fede, di spiritualità e di consigli, che me lo facevano sentire vicino, molto vicino anche se era lontano migliaia e migliaia di chilometri» (Gianna, sorriso di Dio, Anno 12, nn. 33-34-35, gennaio-dicembre 2013). Sempre l’ultimogenita di santa Gianna così descrive l’ultimo, ventennale, tratto terreno dello zio: «Di quel lungo periodo ricordo la sua grande forza d’animo e di volontà, al punto che aveva anche imparato a scrivere con la mano sinistra non potendo più farlo con la destra, il coraggio che mi trasmetteva, la sua serenità, la sua continua preghiera, i suoi numerosi Rosari quotidiani, le sue S. Messe celebrate stando seduto e con mio zio Don Giuseppe, e come la sua mente e il suo cuore fossero sempre rivolti al suo tanto amato Brasile» (ibidem). Un Paese dove la fama di santità di Frei Alberto è tuttora viva, specie nella regione dove operò, in cui tanti lo invocano per ottenere guarigioni e altre grazie.

Il suo corpo riposa oggi a Bergamo, nella chiesa di Sant’Alessandro in Cattura, annessa al convento dei cappuccini.



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