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ALLARMISMI

Orsi polari? Non si stanno estinguendo

A dispetto degli allarmismi che una decina d'anni fa prevedevano un calo della popolazione degli orsi tra il 30 e il 67% entro la metà del secolo, un nuovo rapporto mostra che “il numero complessivo degli orsi polari è rimasto stabile o cresciuto leggermente rispetto al 2005”.

Svipop 14_03_2018
Orso polare

Susan Crockford, docente all'Università di Victoria (British Columbia, in Canada), ha recentemente pubblicato un dettagliato rapporto 2017 sullo stato di salute degli orsi polari.

A dispetto delle affermazioni dell' International Union for the Conservation of Nature (IUCN) e del  Fish and Wildlife Service degli USA (USFWS), che una decina d'anni fa dichiararono a rischio di estinzione la specie e ne predissero un calo di popolazione rispettivamente del 30% e del 67% entro la metà del secolo, il rapporto della Crockford mostra che “il numero complessivo degli orsi polari è rimasto stabile o cresciuto leggermente rispetto al 2005”. C'è di più: come Crockford evidenzia in un altro articolo, IUCN prevedeva che entro metà secolo 10 su 19 delle sottopopolazioni di orso polare sarebbero scomparse. Ebbene, la verità è che “non una sola sottopopolazione è stata spazzata via. La maggior parte è rimasta stabile o s'è accresciuta, mentre una ha mostrato un netto miglioramento rispetto a condizione corporea, riproduzione e sopravvivenza dei cuccioli.”

La sola sottopolazione che si è ridotta risiede nel Mare di Beaufort meridionale, e questa contrazione peraltro non dipende – come invece sostiene USFWS  - dall'arretramento dei ghiacci, ma – al contrario - dal fatto che lì periodicamente in primavera il ghiaccio diventa particolarmente spesso. Ciò impedisce alle foche di praticarvi i fori di respirazione di cui hanno bisogno per sopravvivere nelle acque gelide, sicché devono spostarsi altrove. Perciò gli orsi, che proprio in quel momento escono dalle tane e devono nutrirsi abbondantemente per accumulare grasso corporeo necessario alla sopravvivenza per il resto dell'anno, non trovano più a disposizione le loro prede e si vedono costretti a fronteggiare una pericolosa penuria alimentare. 

 

Crockford chiarisce che l'evidente errore commesso da IUCN e USFWS deriva dall'avere, per la prima volta, poggiato previsioni in merito al calo di una popolazione non sul rilevamento fattuale di “un calo osservato”, non “sull'attuale condizione della popolazione”, ma su “modelli climatici”. In sostanza, le due organizzazioni hanno dato retta ai traballanti modelli informatici di evoluzione del clima cui prestano fede quegli scienziati i quali 1) ritengono che il climate change antropogenico starebbe causando una drastica riduzione dei ghiacci artici e 2) presumono che all'arretramento dei ghiacci non possa che conseguire una decimazione degli orsi. I mass media, al traino, hanno fatto dell'orso polare una delle più pubblicizzate e spendibili icone del climate change prodotto dell'uomo e dei disastri che ne discenderebbero. Tuttavia, alla luce dei dati disponibili, Crockford può fondatamente affermare che quella dell'orso polare è ormai a tutti gli effetti una “icona fallita del climate change”.

 

Risulta ingiustificato pertanto il pressante allarme lanciato, tra gli altri, dal WWF (e puntualmente rilanciato dai principali organi d'informazione), che il 27 febbraio scorso, celebrando la Giornata mondiale dell'orso polare, ha lamentato che “entro i prossimi 35 anni rischiamo di perderne il 30%”. Invero il WWF, era ancor più pessimista solo un anno fa, visto che il 25 marzo 2017, in occasione dell'iniziativa “l'Ora della Terra” (“il più grande evento globale per sensibilizzare l’opinione pubblica e i decisori politici sul cambiamento climatico e sull’urgenza di agire ora”), pronosticava che “con la progressiva riduzione della banchisa polare rischiamo di perdere i due terzi degli orsi polari entro il 2050”, nel quadro della immane “sesta estinzione di massa”, quella che “al contrario delle prime 5 estinzioni già avvenute, non è frutto di fenomeni geologici naturali ma avanza rapidissima ed è causata da una sola specie: l’uomo”.

A proposito: tra le vittime della sesta estinzione di massa determinata dal riscaldamento globale antropogenico ci sarebbero pure, secondo il WWF, i pinguini di Adelia in Antartide: “il 75% della popolazione potrebbe scomparire se le temperature del globo cresceranno di 2°”. Ma un recente studio dice il contrario e rassicura: in realtà, i piccoli e buffi pinguini non se la passano male. Non peggio del grande orso bianco, insomma. Un'altra popolarissima icona del climate change si appanna, nonostante i persistenti, accorati tentativi di mantenerla in auge. (Alessandro Martinetti)