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L'ANNIVERSARIO

Nuova Messa, il cambio di paradigma che tradì il Concilio

Nel cambio di paradigma liturgico, dopo 50 anni, ci dobbiamo chiedere come questo sia stato reso possibile dall’introduzione del nuovo rito della Messa. Quando partecipiamo a tante celebrazioni nelle nostre chiese, nelle nostre parrocchie, siamo sempre sicuri che stiamo osservando lo stesso rito inteso dai padri conciliari oppure una delle sue infinite variazioni? 

Ecclesia 30_11_2019

Il 30 novembre 1969 entrò in vigore il nuovo rito della Messa che nelle intenzioni del Pontefice rispondeva alle richieste di riforma che provenivano dal Concilio Vaticano II. Tra il Concilio e questo nuovo rito, ci fu un periodo intermedio di alcuni anni in cui vennero implementati alcuni cambiamenti ma sempre con l’impianto abbastanza fedele a quello della messa tridentina. Nell’udienza del 26 novembre, 4 giorni prima dell’entrata in vigore del nuovo rito della Messa, così veniva annunciato da Paolo VI: “Ancora noi vogliamo invitare i Vostri animi a rivolgersi verso la novità liturgica del nuovo rito della Messa, il quale sarà instaurato nelle nostre celebrazioni del santo Sacrificio, a cominciare da domenica prossima, prima Domenica dell’Avvento, 30 novembre. Nuovo rito della Messa: è un cambiamento, che riguarda una venerabile tradizione secolare, e perciò tocca il nostro patrimonio religioso ereditario, che sembrava dover godere d’un’intangibile fissità, e dover portare sulle nostre labbra la preghiera dei nostri antenati e dei nostri Santi, e dare a noi il conforto di una fedeltà al nostro passato spirituale, che noi rendevamo attuale per trasmetterlo poi alle generazioni venture. Comprendiamo meglio in questa contingenza il valore della tradizione storica e della comunione dei Santi. Tocca questo cambiamento lo svolgimento cerimoniale della Messa; e noi avvertiremo, forse con qualche molestia, che le cose all’altare non si svolgono più con quella identità di parole e di gesti, alla quale eravamo tanto abituati, quasi a non farvi più attenzione. Questo cambiamento tocca anche i fedeli, e vorrebbe interessare ciascuno dei presenti, distogliendoli così dalle loro consuete devozioni personali, o dal loro assopimento abituale”.

Non so se ci fosse una intenzione ironica nella frase “assopimento abituale”, ma voglio credere che Paolo VI, da fine intellettuale, sapesse che nel termine “assopire” esiste anche il significato di “calmare”. La Messa tridentina, a cui il Pontefice comunque fa omaggio, con i suoi gesti ripetitivi e misurati, con il suo linguaggio antico, con i suoi movimenti solenni, induceva una “calma spirituale”, placava gli animi, preparava all’adorazione.

Nel cambio di paradigma liturgico, dopo 50 anni, ci dobbiamo chiedere come questo sia stato reso possibile dall’introduzione del nuovo rito della Messa. Dobbiamo cercare di intravedere i vantaggi che ne sono derivati ma anche le mancanze. Certamente questa è operazione complessa, per affrontare le questioni bisogna per primo chiarire i termini. Quando partecipiamo a tante celebrazioni nelle nostre chiese, nelle nostre parrocchie, siamo sempre sicuri che stiamo osservando lo stesso rito inteso dai padri conciliari oppure una delle sue infinite variazioni? 

Dopo la sistemazione di Benedetto XVI, abbiamo la forma ordinaria e la forma straordinaria; ma che io sostengo che abbiamo anche una sorta di “forma comune”. Cosa intendo con questo? Intendo dire che le liturgie celebrate nelle nostre chiese, sono una continua variazione della forma ordinaria e spesso sono un tradimento del Concilio stesso che stabiliva che nessuno, anche se sacerdote, “osi, di sua iniziativa, aggiungere, togliere o mutare alcunché in materia liturgica”. Eppure oggi, in ogni parrocchia, ci sono le versioni particolari che non rispondono al dettato conciliare. 

Per non parlare della musica per la liturgia, del confronto fra quello che c’è scritto nella Sacrosanctum Concilium e quello che si ascolta nelle nostre liturgie. Basta solo far riferimento a quanto detto da Papa Francesco per un recente raduno di cori organizzato dall’Associazione Italiana Santa Cecilia: «Non una musica qualunque, ma una musica santa, perché santi sono i riti; dotata della nobiltà dell’arte, perché a Dio si deve dare il meglio; universale, perché tutti possano comprendere e celebrare. Soprattutto, ben distinta e diversa da quella usata per altri scopi. Vi incoraggio a continuare su questa strada. Insieme potete meglio impegnarvi nel canto come parte integrante della Liturgia, ispirandovi al modello primo, il canto gregoriano». Concetti abbastanza chiari, ma quanta distanza siderale esiste fra questo e quello a cui assistiamo nelle nostre parrocchie?

La riforma liturgica è una risposta alle richieste del Concilio, ma nel modo in cui è stata attuata, non viene il sospetto che la domanda non è stata ben compresa? L'augurio è che la liturgia possa aiutarci a partecipare sì, ma nel senso di entrare nel mistero che viene celebrato più profondamente, ad aumentare la nostra necessità di adorare “in spirito e verità”, ad aiutarci in un ascolto più profondo attraverso “i riti e le preghiere”.  Che la liturgia, quella voluta dalla Chiesa e non dalle fisime personali, siano pure esse di sacerdoti, possa guidarci a compiere il suo scopo finale, che è in primis la gloria di Dio, e poi la nostra santificazione.