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MEDIO ORIENTE

Netanyahu vince ma non governa. Israele al bivio

Come era stato ampiamente previsto dai sondaggi, Netanyahu e la sua coalizione di destra ha ottenuto la maggioranza relativa, ma non ha i numeri per governare. Neanche la coalizione di centrosinistra, guidata da Lapid, ha i numeri e deve trattare con i partiti arabo e russofono. L'opposizione vuole spodestare Netanyahu, già sotto processo.

Esteri 27_03_2021
Israele, spoglio

Tutto come nelle previsioni dei sondaggi pre-elettorali. Il risultato delle politiche di martedì scorso per la 24ma legislatura riconosce la vittoria del leader del partito Likud, Benjamin Netanyahu, la cui lista è prima per numero di deputati, ma non gli ha dato la certezza di guidare una coalizione di partiti di centro-destra e religiosi dichiaratisi a suo favore, ovvero per continuare ad essere primo ministro, come negli ultimi 12 anni consecutivamente.

Questa coalizione, stando ai dati finali pubblicati dalla Commissione Elettorale Centrale  - "dopo molti e meticolosi processi di monitoraggio e doppi controlli" - riunirebbe 52 deputati: 30 del Likud, 9 di Shas (sefarditi), 7 di Uniti nella Torah (ashkenaziti) e 6 dei Sionisti Religiosi, nove in meno della maggioranza in grado di esprimere un governo. La Knesset è composta da 120 deputati.

Analoga prospettiva per una coalizione di centro-sinistra, che riunisce 51 deputati anti-Netanyahu: Yesh Atid (C’è un futuro) 17, Kahol Lavan (Blu e Bianco) 8, Laburisti e Yisrael Beitenu (russofoni) 7 ciascuno, Tikva Hadasha (Speranza nuova) e Meretz (socialisti) 6 ciascuno. Alla sua guida si ritiene investito Yair Lapid, leader di Yesh Atid, ma anche un ex amico di Netanyahu, l’avvocato di destra Gideon Saar che con la sua lista Tikva Hadasha (Speranza nuova) ha conquistato 6 seggi ed insiste nel proporre “un governo del cambiamento”.

A Netanyahu, per il varo di una coalizione di centro-destra, sarebbe necessario il sostegno non solo dei 7 deputati del partito Yamina di Naftali Bennet, che però finora non si è pronunciato a favore di una o dell’altra coalizione; ma anche dei 4 deputati del partito della minoranza araba Ra’am, il cui leader Mansour Abbas, pur simpatizzante di Netanyahu, si è detto disponibile a far parte di una qualsiasi coalizione. Arriverebbe a 63 voti. Solo che la presenza degli arabi ,“nemici dello Stato sionista”, viene decisamente esclusa (perché “incompatibile”) da Bezalel Smotrich, leader dei Sionisti religiosi, felice dell’avvenuta elezione a deputato dell’ ”avvocato dei coloni” Itamar ben Gvir.

Più facile, in partenza, la costituzione di una coalizione di antagonisti di Netanyahu perché le basterebbero, per la maggioranza parlamentare, i sette voti dei deputati di Yamina e i quattro degli arabi di Ra’am per raggiungere una maggioranza ,sia pur risicata, di 62; o con i sei deputati della Lista Araba unita i 64 voti di sostegno. E’ chiaro come tutti questi calcoli lascino intravvedere negoziati molto difficili.

Il presidente dello Stato Reuven Rivlin avvierà le consultazioni dopo il 4 aprile, alla fine della Pasqua ebraica. Ha dinanzi un panorama inquietante: qualche analista, con dinanzi lo spettro dell’instabilità, ritiene inevitabile una quinta consultazione e la ipotizza per questa estate. Rivlin la scongiura, “dimostrerebbe la totale sfiducia nelle istituzioni”, ha detto. Altri sostengono che questi risultati sono la conseguenza del sistema elettorale rigorosamente proporzionale. Rispettoso però – e lo ammettono francamente – della grande diversità delle opinioni, congeniale negli ebrei, e quindi della molteplicità delle posizioni politiche. Altri sostengono che la “colpa” sia una mancata e sostanziale modifica del sistema; che però esigerebbe un vasto consenso.

Un cerchio, in definitiva, scombinato da molto tempo e che non è stato raddrizzato da vari tentativi: come ad esempio quello che ha elevato il livello di sbarramento per l’accesso di un deputato alla Knesset, passato dall’ 1% all’attuale 3,25%; o quello che, per sveltire la scelta del premier, consentiva di indicare il leader del partito di maggioranza relativa (ma visto l’insuccesso, fu abbandonato). Dopo le elezioni del 2 marzo 2020 a iniziativa del partito Kahol Lavan fu spodestato l’allora presidente della Knesset Yuli Edelstein, esponente del Likud, per apportare, senza ostacoli, modifiche al sistema elettorale. Finalizzate però chiaramente a eliminare Netanyahu dalla scena politica dopo 15 anni alla guida di vari governi, 12 dei quali consecutivi. Prevedevano, fra l’altro,il divieto di candidarsi a premier di un incriminato di reati, vedi caso, come la corruzione e l’abuso di ufficio; e l’introduzione del limite di due mandati consecutivi.

Nessuno oggi esclude che tali modifiche possano essere riesumate da un “governo del cambiamento”, proprio in concomitanza con la ripresa del processo a Netanyahu, se la coalizione a lui ostile dovesse essere costituita. L’obiettivo dichiarato dai suoi nemici è di fargli assaporare la polvere del “ripudio della nazione”. Alla quale non importa, secondo loro, che egli si sia guadagnata l’ammirazione di mezzo mondo per aver attuato in tempi rapidi la vaccinazione anti-Covid, abbia garantito la prosperità economica e ampliato con gli “Accordi di Abramo” le relazioni di pace nel mondo arabo, addirittura nel tempo in cui il Medio Oriente non sa essere più teatro delle rivalità e ambizioni di grandi Potenze.

E paradossalmente nel tempo in cui buona parte della minoranza araba di Israele ha riconosciuto che il suo processo di integrazione nella nazione ebraica può farla crescere culturalmente, economicamente e nella sicurezza, avvalendosi sempre più dell’istruzione superiore e universitaria, inserendosi delle opportunità dischiuse dalle imprese private e dalle istituzioni pubbliche, e chiedendo addirittura l’intervento della polizia per debellare la violenza crescente, specie giovanile. E in cui scopre, dalle ultime elezioni, di essere determinante nella formazione di una qualsiasi coalizione di governo nazionale.