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IL REMAKE IN FICTION

Nel nome della Rosa e del banale politically correct

Il remake in serie tv de Il Nome della Rosa offre risultati davvero deludenti. Personaggi fuori parte, ambientazioni scontate, scenografie alla "Fantaghirò". E soprattutto una scarsa fedeltà al romanzo di Eco nel nome del politicamente corretto. A cominciare, guarda caso, dal frate che peccava contro natura. E che qui...

Cinema e tv 06_03_2019

Sei milioni e mezzo di telespettatori, lunedì, per il primo puntatone de Il Nome della Rosa, versione serie tv del romanzo di Umberto Eco diretta da Giacomo Battiato. Una mega operazione che, nonostante le pretese, perde clamorosamente il confronto con il film di Jean Jacques Annaud del 1986 e offre un pessimo servizio al best seller e all’autore. 

Partendo da alcuni aspetti più superficiali - come quelli relativi alla scenografia - il massiccio ricorso alla computer grafica offre risultati davvero deludenti, con un’abbazia fosforescente di stile ambiguo del tutto imparagonabile agli esterni ricostruiti dal grande scenografo Dante Ferretti, avvolti in brumose e cupe atmosfere alpine perfettamente ricreate tra Fiano romano e Campo Imperatore.

Si contano scivolate “alla Fantaghirò” anche sugli interni: dall’incensiere che spande il fumo del ghiaccio secco a discesa verticale, allo scriptorium di evidentissima cartapesta, fino al laboratorio dell’erborista con le boccette colorate da negozio di souvenir. Belli i costumi, anche se papa Giovanni XXII, interpretato da Tchéky Karyo vestito di panni profanissimi, risulta un azzardo incomprensibile ai più. 

La fiction è minata soprattutto da clamorosi errori nel cast – pur composto da eccellenti attori - a cominciare da un John Turturro decisamente fuori parte. Nello sguardo latino e vacuo dell’attore italoamericano non c’è nulla dell’anglosassone, ironico distacco del frate Guglielmo da Bascavilla così come fu pensato da Eco e poi perfettamente interpretato da Sean Connery.   

Fuori ruolo anche l’ormai onnipresente Fabrizio Bentivoglio, recentemente lanciato nell’iperspazio – guarda caso - dalla sua interpretazione del vecchio gay nell’agit prop lgbt “Croce e delizia”. Il frate Remigio da Varagine che lui impersona è descritto da Eco come un ex eretico dolciniano che si è saputo riciclare molto bene nell’abbazia: “Per dodici anni non ho fatto altro che riempirmi la pancia, soddisfare la mia verga e imporre le decime ai contadini affamati” confessa il personaggio quando, alla fine del romanzo trova la forza di ricordare gli ideali rivoluzionari della sua gioventù. Nel film di Annaud fu reso in modo mirabile dal caratterista tedesco Helmut Qualtinger, grasso, rubizzo e irascibile che volle terminare le riprese pur essendo vittima di atroci dolori che lo avrebbero portato alla morte subito dopo la produzione. Nulla a che vedere col fine e pensieroso “ex brigatista rosso in esilio” creato da Bentivoglio. 

Anche l’abate Abbone, che un regale e impenetrabile Michael Lonsdale interpretava a puntino come l’archetipo dell’autorità che ricopre gli scandali, viene reso insicuro e nevrotico da un pur bravissimo Michael EmersonIl giovane Damian Hardung possiede il perfetto physique du rôle per interpretare Adso da Melk, ma la sceneggiatura stravolge completamente il suo personaggio, quello del giovane novizio terrorizzato dalle brutture cui assiste nell’abbazia e vessato dai sensi di colpa per il suo peccato carnale: “E vidi l’abisso, invocato dall’abisso”. Nella fiction, piuttosto, il giovane non sembra molto turbato dagli atroci accadimenti e, anzi, va allegramente a spasso con la giovane plebea occitana, con la quale avrebbe dovuto avere, invece, solo un fugace incontro notturno. 

Il rispetto quasi filologico del romanzo, tanto sbandierato da protagonisti e produttori della fiction, è quindi fuffa, una reclame buona per chi non ha letto il libro. L’unico personaggio che trova credibile continuità è l’inquisitore Bernardo Gui, interpretato da Rupert Everett. Tuttavia, la dilatazione del suo ruolo (spalmato per otto puntate) trasforma l’apparizione del personaggio che fu di F. Murray Abraham nello stucchevole cliché del terribile inquisitore piromane. 

Inedito, ma non meno banale, il Fra Dolcino inserito nella sceneggiatura per allungare il brodo. Le belle fattezze di Alessio Boni  sono prestate a un personaggio - a metà fra Che Guevara e Robin Hood - che poco ha a che vedere con il mistico tagliagole descritto da Eco in uno dei suoi pirotecnici slanci eruditi.

L’azzerbinamento al politicamente corretto e al pauperismo mediatico bergogliano (grazie alla disputa sulla povertà ecclesiastica) è un'altra componente subliminale di questo prodotto abbastanza mediocre. Basti pensare che, a un certo punto, Guglielmo da Baskerville racconta di come frate Berengario avesse peccato “contro la castità” con il confratello Adelmo, mentre sia nel libro che nel film si afferma, chiaro chiaro: “Fratello Berengario era invertito sotto molti aspetti […] La carne può essere tentata secondo natura o contro natura”. Figuriamoci, una frase del genere avrebbe fatto baluginare davvero fiamme di roghi per gli incauti produttori.

Con le sue goffaggini e banalizzazioni, questa fiction porta tuttavia alla luce la struttura di un romanzo che ha celato a lungo la sua vera natura, essendo stato intelligentemente sepolto da concrezioni splendidamente erudite, citazioni che aprono la mente, digressioni coltissime e da un uso dell’italiano davvero impeccabile. 

Il romanzo che, pur snobbato inizialmente negli Usa,  ha venduto 30 milioni di copie in Europa, rivela come il suo successo sia stato prodotto, in realtà, da una trama fondamentalmente antistorica e volgare, composta da un misto di colpi di scena “splatter” e di torbide relazioni uraniane capaci di stimolare la più morbosa curiosità. Il libro ci appare così, sfrondato di ogni colta preziosità dalla attuale fiction, una facile operazione commerciale ammantata da splendidi paramenti, una velenosa frecciata anticlericale da  “spretato” dell’Azione Cattolica: il fango gettato sulla storia più alta, nobile e colta dell’Europa attrae lo spettatore come una vecchia lettera in cui si apprenda della storia extraconiugale dell’irreprensibile nonno. 

Gli stereotipi ideologizzati di cui è pieno il romanzo non fanno onore a un uomo della levatura culturale di Eco e ne dimostrano – duole ammetterlo per un defunto -  tutta la disonestà intellettuale. Con quale faccia il semiologo, pur essendo professore emerito dell’antichissima Università di Bologna, vera arca di sapienza e di cultura cattolica, fondata nel 1088, ha potuto trasferire ai lettori l’immagine di una chiesa medievale oscurantista e nemica della cultura? Anche i sassi sanno che dobbiamo proprio all’opera di custodia e trascrizione dei monaci il mantenimento di quella cultura classica su cui Eco stesso ha edificato la propria carriera universitaria. Peraltro, nemmeno i più feroci anticlericali attaccano più la Chiesa con l’ottocentesca solfa massonica della “feroce Inquisizione”, visti i numeri infinitesimali delle effettive condanne rispetto ai processi per stregoneria. 

Sarebbe interessante sapere cosa pensi oggi del romanzo il cardinal Gianfranco Ravasi il quale, stando ad Avvenire, apprezzava molto nell’amico Umberto la “curiosità”, tanto da mostrargli i testi autografi di quel San Tommaso d’Aquino che Eco stesso ringraziava per avergli fatto finalmente perdere la fede.